Erika è anche entrata a far parte del Movimento Italiano Psicologia Perinatale, che si occupa di diffondere cultura e far conoscere le problematiche relative a questo evento.
«Quello che faccio io - dice Erika - è offrire un punto di vista, una sorta di vetrina. Ne parlo in modo semplice e chiaro, senza giri di parole e lucidamente».
Qual è la funzione del suo blog?
Attraverso il blog racconto la mia esperienza, cerco di mettere in risalto le criticità ma anche le buone pratiche. Il blog è il mio tentativo di crepare il tabù sul lutto perinatale. Inglobarlo in una più ampia esperienza di maternità e paternità. Talvolta alcune mamme o papà mi contattano solo per raccontarmi del loro vissuto o farmi sapere che leggere alcune parole li ha confortati. Il più delle volte ascolto le loro storie e mostro la mia vicinanza, ma alcuni di questi contatti si sono evoluti in amicizia.
Ho scritto tre libri sul lutto perinatale: Nato vivo, Professione Mamma e Questione di biglie. Cerco di focalizzare l'attenzione essenzialmente dove ci sono, a mio parere, delle grosse lacune che producono in noi difficoltà nella gestione del lutto perinatale sia intimo che pratico. Molto raramente si viene informati, ad esempio, che è possibile seppellire i nostri bambini e la mancanza di questa informazione crea l'impossibilità di attivare un percorso talvolta fondamentale per l'innescarsi di alcuni passaggi: riconoscere il proprio figlio, riconoscersi come suoi genitori, fare delle cose per definire la sua morte, quindi la sua vita, e collocarlo in un luogo.
Ci sono una serie di cose che si possono fare nella pratica e che aiutano a dare una visione oggettiva di ciò che è accaduto. Occorre essere messi in condizione di poter scegliere se facciano al caso nostro oppure no.
Molto raramente si hanno le parole per poter spiegare questo tipo di lutto e quasi mai si hanno le parole legate alla morte. Non ci viene mai detto: “tuo figlio è morto”. Ci viene detto: “il battito non c'è più”. Le parole sono importanti per identificare chiaramente quale sia la situazione e per poter mettere in atto quelle dinamiche utili ad accettarla. Le faccio un altro esempio: il parto del nostro bambino morto viene chiamato “espulsione”. Eppure si tratta di un vero e proprio parto, con contrazioni, travaglio e secondamento. Quelle comunemente usate sono parole che spersonalizzano la realtà, tendono a negare l'esistenza del figlio e della sua famiglia, del figlio morto e della sua famiglia in lutto.
La mia esperienza a contatto con i genitori che hanno avuto questa esperienza mi fa dire che molti geniotori sentono il bisogno e scelgono di essere i genitori di quello che viene chiamato "prodotto del concepimento" o "materiale abortivo". Questi genitori si sentono defraudati della legittimazione e trovano difficoltà nel loro percorso come se non meritassero di essere definiti genitori di quel loro figlio di cui piangono la scomparsa perché socialmente quel bambino non è ancora considerato un bambino.
Quando il bambino viene considerato tale?
C'è il limite delle 28 settimane. Il piccolo che muore prima delle 28 settimane di gestazione è considerato nato morto. Dalla ventottesima settimana c'è l'obbligo d'iscrizione all'anagrafe e quindi ai genitori viene consegnato lo status di genitore ma di genitore di un figlio nato morto. In questo caso i ruoli sembrano più chiari ma non cambia molto purtroppo perché il fatto che il loro figlio sia nato morto lo rende un figlio mai esistito. Non c'è uno storico, nessuno lo ha mai conosciuto, visto, vissuto perciò le situazioni si equivalgono.
Viene consentito alla mamma di prendere in braccio il proprio figlio nato morto prima delle 28 settimane?
Che io sappia non c'è una regola fissa. Dipende dalla struttura. Ciò che più spesso manca è il sostegno, l'accompagnamento a prendere in braccio il proprio figlio. Perché non dobbiamo dimenticare che non è solo un figlio, è un figlio morto. Può essere di grande utilità vederlo, toccarlo, tenerlo in braccio, ma so anche di mamme rimaste sconvolte dalla vista del loro bambino.
Quanti lutti perinatali ci sono in media?
Tra il 10 e il 30 per cento delle gravidanze termina in un lutto. Altre stime che tengono conto anche del termine delle gravidanze nelle primissime settimane, arrivano al 50 per cento. Il periodo di vita nel quale siamo maggiormente esposti alla morte è proprio il periodo intrauterino. Questa informazione però non ci viene passata.
Perché è così complicato approcciarci alla morte perinatale?
Negli ultimi cinquanta anni il progresso della medicina ha reso possibile la sopravvivenza di molti bambini che solo qualche anno fa non sarebbero sopravvissuti. La morte perinatale è un evento che c'è sempre stato e ci sarà sempre. E' un evento naturale. Adesso assistiamo alla quasi assenza di mortalità infantile. Il parto non è più un evento condiviso come un tempo, quando si partoriva in casa. L'eventuale morte del nascituro era sotto gli occhi di tutti. Oggi resta tutto celato tra le mura degli ospedali, non si vede più nulla. La morte non è più un fatto della vita. Dobbiamo a tutti i costi avere la meglio su di essa. Lo scopo stesso della medicina è vincere la morte facendo sopravvivere sempre e a qualunque costo. Morire è un evento negativo, un tradimento, un vero fallimento. E' un fatto di cultura quello di accettare che nonostante la medicina abbia fatto enormi progressi, non siamo affatto onnipotenti. La mortalità è un fatto umano, non un fallimento. Siamo impotenti di fronte alla morte. Spesso della morte pre o perinatale non riusciamo neanche a capire la causa che ha spesso a che fare con la selezione naturale. Il lutto perinatale è un lutto molto particolare perché nella maggioranza dei casi avviene dentro il corpo della donna e quando una persona ci muore dentro è difficile liberarsi dal fatto che quella morte dipenda da noi. Si tratta di un senso di colpa molto forte. Le donne vivono questo evento in modo difficilissimo. Si perde autostima, ci si sente difettose in qualche modo.
Le donne vivono spesso il lutto perinatale in solitudine o non riescono ad elaborarlo. Che cosa consiglia alle coppie che si trovano ad affrontarlo?
Le donne lo vivono spesso come una loro mancanza personale, è qualcosa che mina profondamente la loro autostima. La cosa che spesso impedisce alle donne di parlarne è la vergogna. Quando nasce un bambino viene normalmente detto alla mamma che è stata brava, che ce l'ha fatta. Se il bambino muore, però, è chiaro che la mamma “non ce l'ha fatta” e che, di conseguenza “non è stata brava”. E' qualcosa che coinvolge il valore della donna che, nella nostra società, vale in quanto madre. Parlarne è utile perché esprimendo il dolore è possibile cominciare a liberarsene. E' importante confrontarsi e parlarne perché questo ridimensiona un evento che appare raro, a qualcosa di piuttosto diffuso. Attraverso la condivisione è possibile collocare questo dolore agevolando un percorso di trasformazione interiore vero e proprio. Senza esprimere le proprie emozioni si resta ingabbiati in un percorso doloroso senza uscita. E' importante lasciar fluire il proprio sentire cercando di riadattare la propria vita senza quel figlio che non ci sarà più. Fare finta di nulla non risolve il problema. E' necessario ammettere che sia morto qualcuno. La gravidanza interrotta è, a tutti gli effetti, un lutto. Il dolore che ne consegue è in qualche modo autorizzato e dopo l'esperienza di morte è possibile ricostruirsi.
Nella sua esperienza personale di lutto quali sono stati i suoi passi?
La prima volta ho cercato di farcela da sola. La seconda volta ho capito di avere bisogno di farmi aiutare. Dovevo mettere insieme due aspetti: ammettere che era morto qualcuno e permettermi di sentire male per questo. E' importante capire che quando una gravidanza si interrompe provoca il dolore del lutto. Capire che il dolore che provavo era a tutti gli effetti quello del lutto è stato fondamentale. Si può cominciare a ricostruirsi su questa base.
Perché consideriamo innaturale e qualcosa di insuperabile la morte perinatale?
Perché l'ordine naturale delle cose vorrebbe che i figli sopravvivessero ai loro genitori. Non siamo preparati alla morte di un figlio. Non si considera che qualunque vita ha in sé la possibilità della morte, fin dal suo primo istante. Non si considera che morire sia un fatto di natura. E' importante accettare che la morte esiste e che fa parte della vita come un evento molto doloroso ma anche di profonda trasformazione per chi muore e per chi resta, chiamato a riadattare la sua esistenza includendo l'assenza della persona morta. E' importantissimo parlare della morte, invece la si tace come fosse un evento scabroso che richiama la sfortuna. Ai bambini, ad esempio, non viene spiegata la morte e spesso neppure comunicata come tale. Nel caso della morte perinatale non si parla di tutto ciò che è legato a quella morte o al periodo della gravidanza come non fosse mai esistita. E' chiaro che se il bambino è nato morto, manca uno storico sociale ma esistono comunque ricordi di cui si può parlare. E' necessario dare una collocazione nel passato a quei ricordi.
Le donne che volessero contattarla?
Possono farlo attraverso il sito Professione Mamma o la pagina facebook.
Quante donne la contattano sul blog?
Sono in rete da tre anni ma il blog è stato più attivo in questo ultimo anno. Durante l'ultimo anno mi ha contattato qualche decina di mamme.
Il suo prossimo progetto?
www.luttoperinatale.life: un nuovo sito con l'obiettivo di raccogliere tutte le informazioni che possono essere utili a chi si trova a vivere questo evento. In questo spazio, costruito insieme alla Psicologa Perinatale Novella C. Buiani vorremmo far convergere tante voci dedicate al lutto perinatale e al lutto perché il lutto perinatale ha le sue peculiarità ma è pur sempre un lutto. Vorrei dare un minimo apporto affinché le famiglie si trovino in condizioni migliori rispetto a quelle in cui mi sono trovata io. Sostenere le famiglie significa aiutarle a riorganizzarsi anche con una perdita importante.