Il dogma del ragioniere, non toglie, né vuole, né potrebbe togliere nulla al valore del razionalismo. La prospettiva razionalista non è demoniaca di per sé. È piuttosto semplicemente da impiegare come strumento relativo, non più assoluto, affinché cessi di incarnare il monopolio dell’intelligenza. Da limitare a circostanze amministrative. Se necessario da sottomettere ad altre dimensioni umane, come quella affettiva, empatica, compassionevole, contemplativa, euristica, serendipidica. Tutte utili per liberare l’uomo dalle gabbie in cui si è rinchiuso attraverso reti di suggestioni intellettuali, che tendono a mantenerlo incompiuto nelle sue potenzialità, a privarlo del conoscere attraverso il sentire.
Il limite in due punti
Uno riguarda l’aspetto statistico.
Ogni nostra previsione, per quanto scientifica, è solo una delle molteplici possibilità. Essa appoggia, spesso inconsapevolmente, la propria dignità entro un ambito definito, i cui profili sono fortificati: non corruttibile da idee e forze estranee a quelle considerate per formulare la previsione stessa. Consideriamo solo la previsione/possibilità tratta dagli elementi considerati. Quelli che ci appaiono di più e che sono biologicamente e metafisicamente compatibili con il nostro bisogno e la nostra identità. Quelli che non la mettono a repentaglio. Diversamente sarebbe suicidio fisico, dialettico, emotivo. Questo avviene quando l’attenzione alle esigenze altrui diviene prevaricante.
Il secondo limite è relativo alla creatività ed è implicito nel precedente.
Questa sussiste ma limitata a quanto crediamo sia razionale. Ogni nostro motto considerato irrazionale è valutato negativamente in quanto non soddisfa i criteri logici dominanti. È perciò autocastrato, indotto all’aborto spontaneo. Così, una sensazione fuggevole, resta inosservata, nonostante l’informazione che conteneva, magari che stavamo lasciando un luogo dimenticando là qualcosa di nostro. È in quel prurito, malattia, visione, sogno che siamo il senso profondo delle cose, che siamo collegati all’infinito e all’eternità, che siamo dio.
Nei momenti di non accettazione di tutte le informazioni che il sentire permanentemente diffonde a noi, ci autolobotomizziamo di una dimensione umana della quale – ci hanno insegnato – è opportuno farne a meno. Ma è a noi stessi, alla nostra natura e missione che stiamo abdicando.
Totalitarismo eletto
Bastano poche considerazioni su due aspetti relativi al tema del razionalismo – inteso come campo aureo della vita, delle scelte, delle relazioni – che già si avverte quanto quella predilezione limiti il campo dell’umano, quanto costringa l’immensa potenzialità di ognuno entro i violenti – ma silenti – canoni meccanicistici. Una sorta di mortificazione della nostra infinita profonda natura da parte dell’assassino seriale che ha un nome e un cognome: Norma Consuetudine.
Eleggendo (consapevolmente) o subendo (inconsapevolmente) il razionalismo a Santo Graal della verità definitiva, ci poniamo sul naso delle lenti specifiche che implicano un giudizio sul mondo, sulla realtà e sugli uomini. Per porre rimedio, non si tratta di muoversi astenendosi dal giudicare – impresa antistorica e anch’essa prossima al disumano –, piuttosto di prendere coscienza dell’identificazione tra noi e quel giudizio stesso. Comunione che necessariamente si compie se presupponiamo l’esistenza di una realtà oggettiva, con caratteristiche proprie. Ovvero se non ci avvediamo che quelle peculiarità che riteniamo sue, corrispondono invece a nostre proiezioni. Se non ci avvediamo che queste ultime sono emanazioni della nostra cultura, ambiente, educazione, sentimento, emozione. Come se ci sentissimo esistere soltanto entro piramidi gerarchiche, soltanto operando per riconoscerle nel caos disordinato che ci impegna a classificarlo.
Averci pensato prima...
Ridurre l’universo a ciò che possiamo e sappiamo classificare, nominare, misurare ha un che di mostruoso, non servono grandi argomenti per sostenerlo. L’origine di tanta aberrazione e la sua perpetuazione restano tuttavia comprensibili. Ha legittime ragioni storiche.
Se è vero che la storia procede a balzi rivoluzionari, tutti caratterizzati da un nuovo che si fa spazio nel vecchio, si può condividere che l’epoca dei lumi affermava modalità di conoscenza e interpretazione della realtà appunto nuove rispetto all’epoca precedente. La nuova nomenclatura dello scibile, tanto fisico che metafisico, ha soddisfatto in lungo e in largo gli spiriti del tempo. La nuova moda, come il fuoco nella sterpaglia, si è estesa ovunque e velocemente. Ha preso tutti gli ambiti dello scibile. Ha ghettizzato e ridicolizzato le dimensioni più umane, quelle dove era ed è impotente. È riuscita a divenire cultura egemone e contemporaneamente a lasciare sul piatto del vero e del giusto, solo le parti che ritiene di essere riuscita a comprimere entro le sue artificiose, autoreferenziali categorie. Ha prodotto gli specialisti e ci ha indotto a credere in loro. Ora la loro parola conta più del nostro sentire. Forse qualcosa non va.
Pensiamo sia giusto così
Il motivo della perpetuazione di tanto deragliamento da se stessi è a suo modo colluso con il mud del razionalismo, con la sua mente. È il nostro liquido placentare, la nostra madre, la nostra cultura, il nostro modo di interpretare la realtà. Esiste insieme a noi e senza certe consapevolezze non possiamo scoprire che è solo una nostra creatura, che non è la verità.
Perpetuiamo ciò che rientra nel nostro campo visivo. Entro quel campo ci poniamo domande e solo in quel campo cerchiamo le risposte. Ognuno ha da mantenere la propria identità. Cercare, accettare ciò che il canone maggiore considera inopportuno la può incrinare. Si va giù perciò secondo corrente, lasciando ad altri il compito di questuare, credendo che criticare l’universalità della cosiddetta scientificità della ragione sia semplicemente stupido, perché sbagliato!
Il lato che ci nascondiamo
Certe modalità di tagliare fuori dalla realtà la parte che non vediamo, o quelle considerate pragmaticamente e positivisticamente vuote, possono andare bene in contesto amministrativo. Ma se le estendiamo a quello globale, vitale – tanto più se inconsapevolmente – i buoni principi rimangono teorici, la realtà quadra sempre meno, i problemi e i conflitti crescono, e così la necessità di impiegare la gerarchia per dirimersi, per trovare una rotta. Salvo nel caso in cui, la polizia segreta del razionalismo, non faccia sparire dal nostro cuore le tracce d’esistenza di altre modalità di conoscenza, affettive, olistiche, misteriche, energetiche. In quel caso, ci si avvia ad uno stato di polizia dove, per ragion di stato appunto, non c’è difficoltà, né senso di colpa, ad impiegare la forza del buon senso naturalmente, per condannare, espropriare, eliminare. E per mantenere alta la bandiera della vera verità.
Anime morte.1
Con l’idea razionalista in testa, Architetti, Urbanisti e Politici hanno creato palazzi e quartieri non solo popolari. Per ogni appartamento, hanno previsto e realizzato tutto quello che serviva; così in ogni quartiere. Ma hanno dimenticato del tutto che non basta avere il bagno e la cucina se l’accesso è una gimcana tra battenti; hanno tralasciato la dimensione umana per realizzare urbanistiche prive di rispetto, di vitalità, di crocicchi e centri. Hanno creduto che razionalità fosse tutto, che funzionalità ne fosse inclusa; che curvare una via come un serpente potesse bastare a sollevare dall’alienazione chi avrebbe dovuto percorrerla e abitarla. Della dimensione energetica non se ne sono curati, e di conseguenza per la sua dimensione estetica. Sdraiati sulla loro lounge chair Eames con un drink a lato e un libro in mano, sotto la calda luce di una lampada Arco Castiglioni, nel sottofondo della filodiffusione da una Cubo Brionvega l’hanno creduta superflua. Togliendo così, senza patema alcuno - in quanto privi di opportuna consapevolezza - dignità, rispetto, onorabilità alle persone là destinate. Persone evidentemente diverse da loro.
I loro non luoghi adatti al solo transito anonimo, lo dimostrano. E se di energia ne avessero sentito parlare, se ne avessero sentito la presenza o avvertito l’assenza, avrebbero probabilmente cacciato via quella stupida idea, come è giusto che sia con un nemico dell’Intelligenza.
Anime morte.2
Prendiamo la Giustizia, amministrativa appunto, quella espressa dalle leggi, tra cui ad personam.
Chi ha detto che altre modalità che hanno attraversato la storia non corrispondano di più alla giustizia di quanto non possa un giudice rosso o nero, un avvocato acuto o scarso? La tradizione giudaico-islamica prevedeva la vendetta; quella cristiano-orientale l’accettazione e il perdono. Entrambe si appoggiavano all’etica non agli interessi. Entrambe sono in grado di connotare, di volta in volta, quanto avvenuto, non potrebbero mai pensare che la giustizia è uguale per tutti, semmai l’opposto. Ma non lo è neppure nei nostri tribunali laici, neppure per chi ritiene di attenersi ai fatti e alla legge. La stessa giurisprudenza ne è contraddizione e così i gradi di giudizio. Sugli scranni dei giudici è scritta una pretesa disumana, alla quale tutti noi vogliamo credere, secondo il dogma della ratione.
Anime morte.3
Così la Scuola, fucina di esperti e specialisti. Destinati a mantenere l’establishment così com’è. Territorio dove filtrare l’idoneità all’irreggimentazione secondo canoni valutativi pedestri e aberranti. Reti inidonee, quelle sì, a trattenere e a filtrare lo spirito delle persone, le doti uniche che ognuno porta in sé. Ma assolutamente performanti per selezione, per creare scemi e intelligenti, adatti e disadattati, meritevoli e inutili.
E la Salute poi, ridotta ad essere sintomo, la sola cosa che la farmacia e la medicina siano in grado di vedere e in complicità di produrre. Delle vere cause delle patologie non ne hanno idea.
Processi di presunto sviluppo che non hanno nulla a che fare con l’uomo. Salvo che nel suo momento intellettuale o sintomatico, ovvero le dimensioni più superficiali, quelle meno idonee a cogliere le profondità dell’oceano che siamo.
Anime morte.4
Ma è così ovunque si guardi, a qualunque livello si voglia portare l’attenzione. Prendiamo il fatto.
Il fatto al quale attenersi, affinché giornalisti e razionalisti siano felici di esistere, non esiste senza di noi e da noi dipende. Noi conteniamo e creiamo il fatto e il fatto ci contiene. Il fatto è nella relazione, da solo non è autosufficiente, neppure con la terapia intensiva, con la quale ogni soccorritore razionalista vorrebbe tenerlo in vita.
Il fatto è con noi un’unità indivisibile. Scomporla – grande, celebrato processo analitico, dal quale, con i nostri mezzi tecnico-scientifici, con il nostro razionalismo, crediamo di poterci astrarre – non porta che all’illusione di essere giusti e benevoli dei con il potere di amministrarlo, distribuirlo, farlo proprio o attribuirlo. Il fatto, non contiene, né esprime alcuna oggettività, non supera alcuna interpretazione. È lui stesso un’interpretazione. L’uomo ha dato un nome alle cose per farle esistere, uccidendo così i miti dei quali quelle stesse cose erano espressione.
In un incidente, a parte l’aspetto formale di due auto che si toccano, entrambi potranno dire che qualcuno è andato loro contro. Quell’unico fatto accaduto non è per niente uno, sono due, uno per narrazione.
Delirio di onnipotenza
Con la dialettica razionalista, si costruiscono poteri e domini; si delegittima; si creano i diritti lasciando che i doveri e l’etica, vadano alla deriva come un inutile relitto, si da e toglie dignità alla bisogna. Quale altro fondamento si può trovare sotto le poltrone di chi serenamente afferma che business is business? E come non vedere contemporaneamente che da quel punto si allungano prospettive di guerra in forma varia?
Soprattutto si imbavaglia l’universo creativo nascosto dentro gli uomini. La cui emersione non richiede studio e competenza ma libertà dal conosciuto. In quale altro modo si potrebbe tenere a bada interi popoli, fargli credere che produrre di più è importante, convincerli che se seguiranno la sola via, allora si meriteranno ferie e pensione?
Flusso congelato
La cultura razionalista domina. L’egemonia è assoluta. Essa limita così, entro le proprie categorie, l’universo, la verità, gli uomini. Costringe la libertà a muoversi nel suo campo. Tutte le scelte, le valutazioni sono sua diretta discendenza.
Ma non si tratta di pensare di eliminare ciò che la storia ha prodotto. Le ragioni sufficienti c’erano e delegittimarle non fa che deragliare il discorso. La modalità razionalista semmai è da circoscrivere, ovvero da impiegare opportunamente, non assolutamente. Un processo di aggiornamento che avverrà con l’estendersi della consapevolezza dei limiti razionalistici. Se il razionalismo fosse su un banco da lavoro dell’umanità, dovrebbe essere un attrezzo tra molti, non l’unico. Come ogni altro, quando è necessario diviene indispensabile. Infatti, solo lui fornisce il miglior servizio in contesto amministrativo, cioè nella concezione bidimensionale della realtà, quella inetta a cogliere il flusso o il respiro dal quale emergono i mondi; quella idonea a misurare e valutare la modalità statica di essi.
In contesto volumetrico, ovvero quell’ambito dove cogliamo che gli elementi che esprimono la loro azione sono innumerevoli e impediscono una conta e una logica piana, l’applicazione dello strumento razionalistico non ha potere di studio, penetrazione, predizione. Ne ha di più l’empatia, la compassione, l’ascolto, il sentire, la visione, la contemplazione, la meditazione. Strumenti di non misurazione ma di accettazione, olistici e globali, sferici. La cui forma se la vediamo corrisponde alla nostra. Ma in quel caso significa che siamo tornati all’amministrazione, che ancora pensiamo ci sia una verità raggiungibile, che abbiamo nuovamente ridotto alla bidimensione il volume multidimensionale della vita.
Anche per accedere alle consapevolezze, per cogliere la concezione volumetrica non è necessario un corso d’apprendimento. Quel modo lo sappiamo già, sebbene arrugginito e sotto strati di disuso, esso emerge con certezza in modo direttamente proporzionale alla nostra serenità, apertura, equilibrio, forza, capacità di essere amore.
Per questo le oscillazioni azionarie della borsa o l’azione d’attacco di una squadra e ogni evento umano e biologico, per quanto le si voglia avvicinare sul vetrino del microscopio razionalista, non saremo in grado di prevederne gli esiti. È per questo che la madre, ma non il giudice, perdona il figlio, del quale già sapeva cosa avrebbe commesso.
Progresso über alles
Quando le comunità erano minute e ognuno sapeva tutto, non era necessaria l’insegna del fabbro e del sentiero per la sorgente. Ora, senza indicazione non sappiamo dove andare né dove guardare, senza scuola non sappiamo imparare. Forse è maturo il momento per recuperare l’umano che abbiamo gettato via con ciò che abbiamo creduto fosse solo acqua sporca. Di tutte le nostre magiche potenzialità utilizziamo quelle dell’uomo timorato dalla norma. Lì trova il suo terreno d’azione, lì si sente forte fino a sottomettere chi in quel modesto campo energetico neppure ci vorrebbe giocare. L’uomo timorato è facilmente organizzato e in costante assetto per pianificare e anticipare la vita. La sua autostima non risiede in lui ma nel successo delle sue azioni, nell’affermazione della sua figura.
Genealogia del crollo
Con l’egemonia del razionalismo abbiamo dato agio al capitalismo di estendersi come un unguento necessario ai dolori dell’umanità. Ora siamo al liberismo che gli ha messo il turbo. Passaggi che si spiegano attraverso la consapevolezza che le ragioni di capitalismo e liberismo – come altre infrastrutture sociali, politiche, economiche, istituzionali – hanno evoluto se stesse appoggiandosi su leve di tipo narcisistico-cognitivo-analitico. Architetture razional-speculative, totalmente intellettualistiche che hanno eletto il simbolico in sostituzione della natura, dell’uomo. Che hanno fatto dimenticare il sacro sostituendolo con succedanei sempre più mercificati e sempre più effimeri. Alla stregua di bolle finanziarie che esistono indipendenti dal denaro che le ha originate.
Una dimensione nella quale non v’è più traccia dello spirito della natura globalmente inteso. Artificio dopo artificio ci si è dimenticati della dimensione olistica dalla quale proveniamo. Ora pensiamo che la realtà che constatiamo, sia la sola possibile e quella alla quale attenersi. Ora non vediamo la biografia, le scelte che ne sono state ad arbitrario supporto, né immaginiamo che altre decisioni possano favorire altra cultura e valori rispetto a quelli oggi disponibili.
Modalità del giudicare
Vanno ricordati alcuni momenti nodali affinché la critica al razionalismo si impregni di propositività.
Dicevamo inizialmente che «... non si tratta di muoversi astenendosi dal giudicare – impresa anch’essa prossima al disumano –, piuttosto di prendere coscienza dell’identificazione tra noi e il giudizio stesso».
È qui il momento dirimente: prendere coscienza della nostra consuetudine di giudicare il mondo e la contemporanea credenza che quel giudizio lo rappresenti veramente, per quello che è.
È il primo passo che predispone al secondo: è la fede in ciò che esprimiamo che comporta un’identificazione con il giudizio che diamo o che ci viene dato. Accondiscendendo all’identificazione con il giudizio sulla realtà, abdichiamo a noi stessi. Ovvero, ci conformiamo, ci limitiamo in forme e dimensioni limitanti.
Il terzo è che ciò agevola lo scontro come modalità ordinaria delle relazioni in quanto siamo necessariamente obbligati a difendere la nostra posizione, la nostra affermazione, la nostra realtà.
Il quarto riguarda l’eureka sulla presa di coscienza dei primi tre: Ma se le cose stanno così, dov’è l’alternativa? In cosa consiste? Come detto l’alternativa non dirige in una impossibile, disumana, ricerca di non giudicare. Semmai, appunto in quella di non separazione dal giudizio, di presa di distanza. E ciò, nonostante gli argomenti razionalistici che possiamo addurre per non farlo.
Compiuta la presa di coscienza della nostra proiezione sulla realtà di caratteristiche che non ha, credendo poi le siano proprie, abbiamo a disposizione la soluzione.
Quinto: in una parola, accettazione. Giudicare secondo l’abitudine che abbiamo descritto, tende a separare. Liberarsi da quella dinamica psico-razionalista, che offre all’io tutto ciò di cui necessita per la propria autostima, ci permette di entrare nel campo dell’accettazione. Un dominio dove continueremo ad avere ed esprimere la nostra opinione ma in modo via via più distaccato. Dove saremo perciò in grado di accettare e mantenere la dignità d’essere di ciò che non è a nostra misura e convenienza; dove potremo scoprire quanto malessere generava la vecchia modalità e quanto benessere ci porta la nuova. Quanto una tenda a separare e l’altra a unire.
Domina tutto il percorso evolutivo, un sesto punto. Riguarda l’assunzione di responsabilità. Siamo totalmente, individualmente i responsabili della realtà con la quale abbiamo a che fare. Siamo noi ad avere eletto quella razionalistica, solo noi possiamo detronizzarla. Il nostro benessere, quello che sentiamo non potrà mai essere sostituito da alcun argomento razionalistico, neanche pronunciato da uno specialista luminare.
Due precisazioni
Qualcuno potrà pensare che accettare è un morire, che è una mortificazione della passione. È vero, ma solo se razionalisticamente inteso. È invece il contrario se riconosciuto nella sua potenza di benessere. È metterci tutto, senza la dispersione energetica e tossica dello stress e della paura, sapendo che se andrà diversamente dallo sperato, non saremo afflitti dalla delusione e manterremo intatte le nostre doti creative, per ripartire. Sapendo che quel fallimento è una fortuna, perché è lì che troveremo un sacco da imparare. Sapendo che se così non facessimo, manterremmo le medesime predisposizioni a commettere il medesimo errore.
«... l’ordine che voi vedete nella creazione è quello che ci avete messo voi, come un filo in un labirinto, per non smarrirvi. Infatti l’esistenza ha il suo proprio ordine, tale che nessuna mente umana possa abbracciarlo, poiché la mente stessa non è che un fatto in mezzo agli altri. [...] L’arco dei corpi orbitanti è determinato dalla lunghezza della loro pastoia, disse [...]. Lune, monete, uomini.»
Cormac McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi
Il ragioniere
Il ragioniere si rende impossibile vivere il qui ed ora, la migliore condizione per gestire le situazioni della vita, imprevisti inclusi, con la migliore disponibilità creativa a risolverli e o gestirli, con la migliore attitudine a superare le difficoltà. La sua condizione ordinaria è entro ciò che lui chiama passato e futuro. Vive pensando a ciò che è stato e a ciò che dovrà essere. Tempi che sono territori virtuali nei quali non c’è serenità: l’identificazione con rimpianti e aspirazioni la impedisce. Nei quali non ha mai a che fare con la vera natura di se stesso – che spesso neppure ha mai conosciuto – ma solo con l’idea di se stesso, facilmente farcita di modelli per lui ideali, che può arrivare a venerare o a uccidere. Egli è permanentemente rinchiuso nelle sue idee che crede di evincere dal mondo. Non vede che con quelle stesse idee lo esaurisce il mondo. Non si avvede del filtro che adotta per sceglierle o crearle. Non riconosce neppure che con quelle stesse ha generato il suo stesso io. Non sospetta ci siano altre realtà presenti in quello che osserva. Nelle quali smetterebbe di perseverare nel suo spiegare e spiegarsi il mondo. Nelle quali non potrebbe che tacere contemplando le dinamiche energetice che prima gli erano occulte.
Il ragioniere è infatti nella verità, o alla sua ricerca. Un progetto prioritario, indispensabile per gestire la vita. Sembra un ottima cosa, tuttavia così facendo decapita e uccide se stesso secondo i dogmi che più l’hanno affascinato. Con la verità dalla sua, prevede come deve e non deve essere la vita. Impugna una specie di timone per dirigere le relazioni. Se si innamora può per esempio rinunciare a esprimere il proprio sentimento sotto il maglio di qualche timidezza dietro la quale ancora si trovano sue convincenti idee ad impedirglielo. E se lo esprime non si lancia a rivedere il proprio sistema di convinzioni razionalistiche, visto che l’innamoramento come tutta la natura non è comprimibile né trasmissibile, neppure quando qualcuno sostiene di poterlo ridurre a molecole sgusciate da qualche ghiandola linfatica.
Psicologicamente considerato, il ragioniere, è una persona che cerca sicurezza, anzi, senza sicurezza non si muove, non sceglie, non fa, non dice. La trova nel suo bagaglietto di dogmi che porta sempre con sé. Ne fa una casa. Un po’ come i camperisti. Manche offre sicurezza a tutti queli della sua stirpe pizzicagnola e notaia, a tutti i burocrati della vita, che pure il tempo libero hanno misurato e reso produttivo.
Il ragioniere conosce le etichette, sa come si deve fare a tavola, nelle feste, coi parenti, coi figli, coi superiori e gli inferiori, i diversi. Nei libroni dei suoi dogmi è previsto tutto. Tuttavia, crede nel dialogo, ma è proprio quello interiore in particolare a mantenerlo e trattenerlo nello stato bidimensionale in cui si trova la sua stretta concezione.
Le sue abitudini sono semplicemente la cosa giusta. Non ha ragione di riconoscere il flusso canonico che le contiene e lo contiene. Nel suo intimo non c’è motivo di uscirne, e il fatto di essere sempre uguale a se stesso non lo disturba, anzi. Perciò non vede che non sogna ciò che è altro da lui, se non per temerlo o prenderne le distanze. Non ha direzioni di vita che non siano la sua. Quelle che crede essere le sue scelte godono di un’ampiezza limitata alle sue abitudini, e sono compiute per mantenerne la solidità.
La sua vita corre su binari e si ferma solo secondo moduli che qualcuno ha precompilato in sua vece. Se ciò gli genera stress, prima di tutto non se ne avvede, in seconda battuta si rivolge allo specialista – figura invidiabile nel mondo del ragioniere – per avere la medicina giusta.
Il suo stile va dall’imbellettato al rigido, dal vincolato al deterministico.
Chi istiga i suoi confini corre dei rischi. Sotto la bandiera de la legge non si discute, può essere ucciso o giudicato – che sono tutti la medesima cosa – di anarchismo. Tutto il resto con il quale avrebbe potuto estendere i propri orizzonti (ritagliati dallo scenografo), con il quale avrebbe potuto evolvere, non lo vede. Senza dimenticare che l’anarchico non è quello delle bombe e del disordine, è il contrario del ragioniere.
Avendo già la chiave di lettura, il mondo che può elaborare e col quale può interagire è limitato alla condizione materiale dell’energia. Anche per la metafisica, che tratta e maneggia solo ed esclusivamente con logica, espressione positivistica delmaterialismo. Concentrato su se stesso è pronto a difendere i suoi dogmi per il bene di tutti. L’infinito per lui sta tutto in un simbolo, non una presenza della magia, una mappa con la quale navigare tra le dimensioni dell’essere.
Scherzo!
Il ragioniere non esiste, quantomeno allo stato puro. E anche se esistesse, non è di quello che si tratta qui. Esistono metatipi, incarnazioni di tutti i generi, almeno a coprire la maggioranza delle persone. Il ragioniere e i suoi dogmi sono un po’ in tutti noi. Ma non in misure permanenti: variano. Per stato d’animo, paure, pretese, circostanze strette e ampie.
A ben guardare non mancano le occasioni in cui amiamo i binari e la libera rotta del mare e del cielo che invece che alla bellezza, ci portano al timore dell’ignoto.
Dunque? Consapevoli di non poterci sottrarre mai del tutto al dogma del ragioniere, al recondito desiderio di pianificare a misura una vita quantomeno priva di stenti e pene, possiamo meglio riconoscere lo stato profondo del prossimo, possiamo meglio riconoscere quando siamo noi ad impugnare qualche dogma come fosse giusto, come fosse un diritto inalienabile. Consapevoli di tutto questo possiamo escogitare come ridurre o evitare di rimetterci in marcia per qualche crociata personale e non contro qualche infedele. Possiamo evolvere e creare società capaci di vivere secondo natura piuttosto che secondo un’ideologia acquisita e inconsapevolmente eletta stella polare. A volte consapevolmente.