Nonostante le previsioni rassicuranti di politici, economisti, sociologi ed esperti di varia natura la “crisi” economico-finanziaria iniziata alcuni anni addietro appare sempre più invasiva, grave e duratura. Anziché essere, come è stato detto, un quasi fisiologico e temporaneo squilibrio delle leggi di mercato che regolano a livello mondiale il benessere economico delle nazioni e dei cittadini, cresce il sospetto che la “crisi” sia, viceversa, un processo largamente irreversibile, legato su scala mondiale alla iperproduzione di merci non necessarie e alla contemporanea carenza o all'impoverimento progressivo delle riserve di materie prime. Su tutto questo incombe l’ombra minacciosa, o meglio la verità emergente, della speculazione finanziaria mondiale .
Senza entrare in difficili disquisizioni sulle cause, evoluzioni e conseguenze della situazione economica ed ecologica che stiamo vivendo, non c’è dubbio che a causa della crisi ciascuno di noi tende a modificare il suo stile di vita ovviamente in funzione delle proprie condizioni economiche, della propria cultura e della situazione logistica nella quale vive. Il tratto comune di questi cambiamenti nello stile di vita è che in generale ciascuno tende a ridurre i propri consumi, rendendo con ciò sempre meno probabile la “ripresa” che ci viene incessantemente promessa, almeno stante le attuali dottrine economiche dominanti. Si può, oppure no, condividere la dottrina, propugnata da molti, della “decrescita felice”, secondo la quale un certo tipo di riduzione del “prodotto interno lordo” potrebbe non incidere significativamente sul benessere della popolazione. Tuttavia, non c’è dubbio che se i cambiamenti di stile di vita venissero convogliati verso il mantenimento quantitativo e il miglioramento qualitativo dei “beni” essenziali per il benessere della comunità, la diminuzione, forse inevitabile, dei consumi potrebbe essere meglio tollerata e si potrebbe addirittura dare vita a un’economia alternativa, in grado di compensare con un meccanismo virtuoso la riduzione di attività industriali non essenziali, forse inutili o ecologicamente negative.
La produzione di cibi
Un bene essenziale per il benessere della comunità e che riguarda tutti è certamente il cibo, che deve essere disponibile in quantità adeguata, ma soprattutto essere qualitativamente ottimale. È un argomento delicato, perché le restrizioni economiche possono portare molte persone a compiere scelte che peggiorano la sicurezza e la qualità di ciò che si mangia. Peraltro, indurre la popolazione a dedicare attenzione ed energie alla produzione controllata e sicura di cibi può rappresentare un volano in grado di avere impatto positivo sulla creazione di posti di lavoro e sull’economia in generale. Intendiamo riferirci alle pratiche della “agricoltura biologica” e della “filiera corta”, ma soprattutto a quell’atteggiamento mentale che di queste pratiche è la premessa: il sentire che ciascuno di noi deve intensamente occuparsi e fornire le proprie migliori energie per soddisfare i bisogni personali, quelli connessi al proprio cibo in primo luogo, ma si tratta ovviamente di un modo di essere con valenza molto più generale.
Il ritorno alla terra significa per l’individuo appartenere a un territorio, riconoscere una radice vivente che, coltivata, diventa frutto di una identità culturale, non si parla più solo di uno sfruttamento o di una resa economica del territorio. Si ritrova il significato stesso della propria esistenza, si notano molte cose che non vanno nel nostro stile di vita ipertecnologizzato, ci si accorge che la Natura ha le sue regole, e che non seguirle porta alla rovina.
A livello di società, questo tipo di comportamento individuale tende a produrre, tra l’altro, la richiesta ed anzi la pretesa, che le Autorità Politiche mettano in atto una “politica alimentare” basata su interventi sia incentivanti che di controllo rivolti all’agricoltura. Tale azione delle autorità deve tenere nel massimo conto le conseguenze ecologiche e sulla salute delle pratiche agricole, e a tal fine deve mettere in primo piano l’informazione e l’educazione dei cittadini. Le esigenze di tipo economico debbono trovare armonico equilibrio in questo contesto. Questi contenuti sono ampiamente ripresi nelle strategie europee e nazionali, ma essi hanno stentato ad affermarsi nonostante l’urgenza di interventi a favore della qualità ecologica del territorio e della salute dei cittadini.
Occorre quindi rilanciare un certo tipo di agricoltura che non si giovi di brevetti e non sia condotta per conto di terzi o di multinazionali.
Nel nostro paese gli organismi geneticamente modificati (OGM), causando la perdita d’identità delle colture, diffondendo genomi alieni e garantendo un ricavo solo a chi li vende, semplicemente non servono.
Occorre ripopolare le campagne e si potrebbe suggerire che i nostri concittadini che hanno bisogno di lavorare debbano riappropriarsi di quel sapere antico che è ancora oggi nelle mani di pochi, ma sta scomparendo. Non necessariamente questo compito di dare vita ad una nuova agricoltura deve essere affidato a persone in età produttiva: abbiamo nella nostra società un numero sempre maggiore di persone efficienti, escluse per limiti di età dal mondo produttivo, che “si godono” la pensione, in realtà conducendo una vita spesso inattiva e noiosa, routinaria e priva di soddisfazioni. È proprio a questa categoria di persone che principalmente va rivolto l’invito a dare il via alla ricostruzione dell’agricoltura nazionale.
Rilanciare una buona agricoltura
Queste semplici considerazioni che chiunque può trovare condivisibili incontrano, quando le si volesse trasformare in atti pratici volti a ritornare alla pratica di una sana agricoltura da parte di molti cittadini, formidabili ostacoli di natura pratica e soprattutto culturale. È nozione comune che la vita dell’agricoltore debba necessariamente svolgersi in un ambiente ostile, poco salubre e certamente lontano per molti motivi dalle comodità a cui negli ultimi decenni siamo stati abituati nella vita cittadina. Ciò è vero per tutti, ma vale in particolare per le persone anziane e con problemi di salute. Anche i giovani rifuggono dai sacrifici che le pratiche agricole notoriamente impongono e in particolare l’Italia si colloca, all’interno dell’Unione Europea, tra i Paesi con minore incidenza di conduttori giovani.
Non si tratta soltanto di questioni pratiche connesse alla prospettiva di una vita priva delle comodità abituali nella vita cittadina: c’è anche, ed è forse più importante, un problema di collocazione sociale che, pur senza basi razionali e per mere motivazioni psicologiche, rende praticamente inaccettabile e “indecoroso” per un comune abitante di città di divenire contadino, pastore, agricoltore, ecc.
Ci sono infine notevoli ostacoli cognitivi e psicologici a causa del fatto che un cittadino che volesse intraprendere un’attività agricola, non sappia quali spese dovrebbe affrontare, quali saranno i guadagni o i raccolti cui potrebbe aspirare, quali le procedure da seguire. L’impegno di energie e tutta una serie di conoscenze tecniche che gli sono assolutamente estranee ed appaiono difficili da ottenere.
Di fronte a queste difficoltà, che si oppongono al necessario rilancio di una sana agricoltura, occorre immaginare una “soluzione ponte”, che consenta a persone fondamentalmente prive di esperienza specifica di avviare un’attività in campo agricolo con un limitato impegno economico e personale.
L’orto urbano rappresenta in tal senso la soluzione più appropriata.
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