di
Lorenzo Merlo
24-02-2011
"La relazione contiene il massimo potenziale d’innalzamento della sicurezza, indipendentemente dalle conoscenze tecniche e dall’abilità motoria di cui disponiamo". Lorenzo Merlo, del Victory Project, all'interno della sua ricerca sulla cultura della relazione, ci spiega un altro modo di vivere la montagna.
La maestria di fondovalle echeggia sempre nelle falesie, meglio se affollate. Fiumi di indicazioni vengono fuori da chi regola il gri-gri. Fiumi che ribollono se su in alto c’è un bimbo, un principiante o la fidanzata. Ma come può allungare il braccio per arrivare alla reglette se il braccio non lo sente, se la concentrazione è su altro – per esempio sulla paura di cadere – e da lì non si sposta?
Come accorgerci noi, maestri di fondovalle, dell’assurdità – tanto più tale quanto più ripetuta – della nostra determinata ed ostinata intenzione di modificare una persona con una tanto ottusa quanto inadeguata indicazione? L’esperienza non è trasmissibile, vale la pena ricordarlo? Insegneremmo a disegnare (atto creativo/motorio come lo scalare) con lo stesso meccanicistico criterio? “Adesso metti la mano così, poi gira di là...”
L’esperienza è vissuta attraverso le sensazioni. Queste possono essere (uomo) o meno (animali, vegetali, minerali) razionalizzate. Confondiamo in molte circostanze comunicazione con informazione. Una comunicazione contiene il passaggio di informazione (equivoci a parte) ma non di esperienza.
Si crede che una comunicazione possa trasmettere quanto necessario per modificare il comportamento del prossimo. In realtà la cosa non avviene a causa della mancata collisione tra la biografia del destinatario e quella del mittente. Quando la collisione avviene, significa che si è concretizzato un momento didattico. Significa che la comunicazione (verbale e non) è avvenuta nel modo e nel tempo opportuno per essere integrata nella biografia del destinatario.
Permanere nella condizione ove la comunicazione assume – inopportunamente – i gradi della trasmissione di esperienza, significa alimentare la dimensione meccanicistica, ove il mio sapere può passare a te quando io lo affermo; quando ciò non avviene la responsabilità ricade sul destinatario. Il sapere è – purtroppo – fulcro dello scambio, elemento primario, mentre il destinatario diviene secondario o addirittura trascurabile.
Il modo della relazione serve in circostanze didattiche ma anche pedagogiche. La Madre ce lo mostra. È attraverso la relazione empatica con il suo neonato che capisce come sta, cosa necessita, come assisterlo. Il metodo Munter, per esempio[4]. È frequente riscontrarne nelle persone, esperti inclusi, un’interpretazione a mo’ di dottrina: questi sono gli elementi, questi sono i conti dei parametri, questo è il risultato e quindi questo è il rischio. Da “X” in su, non si fa la gita; da “Y” in giù, sì.
Già, un intero metodo, piuttosto che una qualunque altra informazione spicciola, per esempio quella raccolta sul posto al momento della partenza, non dovrebbero essere impugnati dogmaticamente, definitivamente. Dovrebbero invece entrare in circolo affinché si declinino continuativamente al flusso di informazioni esterne e a quelle emotivo-corporee, con ciò che abbiamo già raccolto dalla semplice osservazione degli elementi circostanti, con ciò che è già presente in noi, per studio o pratica.
Il metodo Munter è funzionale alla sicurezza se da strumento eletto, diviene uno fra gli strumenti e i mezzi che si possono impiegare per stimare il contesto che ci apprestiamo a frequentare.
Così come si sente sventolare il metodo Munter per affermare che la verità è lì dentro, si sentono sventolare nello stesso modo altre formule. Il metodo Caruso è stato ed in gran parte è ancora per molti l’unico modo per insegnare l’arrampicata. “Se non segui il metodo, sbagli”. “Così pure se non lo sai”.
Nella formazione di molte guide alpine è stato oggetto di prova d’esame. Gergo, posizioni e prassi dovevano e devono essere conosciute e impiegate, ne va di una cattiva valutazione dell’aspirante guida. Ma non basta. Il 'pacchetto sicurezza' (pala, arva, sonda e ferula), apparentemente un nome come un altro, di fatto è un’espressione che sottintende ad una concezione e concentrazione verso l’aspetto tecnico.
Tant’è che chi non dispone del 'pacchetto' o chi non ne condivide l’imprescindibile esigenza è – tanto per cominciare – un eretico, se non un incompetente patentato. Il modo meccanicistico di concepire l’uomo fa da contorno e sfondo alle menti tecniche e politiche di chi governa la formazione dei 'professionisti della montagna'.
Le formule “pacchetto sicurezza” nonché “montagna in sicurezza” (longeva propaganda delle guide alpine italiane) coniate ed adottate a suo tempo da gran parte della dirigenza e dalla base delle guide alpine – per molte di queste, in vita ancora oggi –, sono campioni eccellenti per parlare della concezione della sicurezza in termini prevalentemente tecnico-materiali, sono modi eccellenti per presunte dimostrazioni di professionalità e spesso, ahimé, superiorità.
Montagna in sicurezza allude alla riduzione a zero del rischio. Un altro stupro!
Tutti argomenti ed esempi, dimostrativi della tendenza culturale figlia di un illuminismo che ha dimenticato l’umanesimo dei suoi genitori. Avi mai dimenticati in altri contesti. Quando un Tuareg si avvia alla traversata insieme alla sua carovana, non ripassa il manuale di deserto, di tempesta di sabbia o di sopravvivenza sahariana. La cultura con la quale è cresciuto, nella quale si identifica (senza alcun processo di razionalizzazione), è la sede della sua sicurezza. Una cultura forzatamente coniugata, scaturita e formata dalla inconsapevole ma valorizzata relazione con l’ambiente.
Per lo stesso motivo un camoscio sente quando poter attraversare una colata ghiacciata e quando no.
Muovendosi ascoltando la logica del sentire si crea lo spazio e l’attenzione per la ricerca e l’esplorazione.
Edonismo e positivistico mito del risultato, del profitto, trovano nel modo del camoscio, del tuareg e della relazione il loro legittimo limite. È per questo nocciolo che l’alpinismo è espressione natural/culturale, non sportiva. È per questo nocciolo che le montagne e la natura non sono altro da noi. È per ridurre la carenza di queste consapevolezze che ognuno di noi può dare il proprio inestimabile contributo.
Con le stesse modalità del tuareg ogni giorno guidiamo la macchina e conduciamo la vita. Davanti ad una curva ghiacciata adottiamo un comportamento utile solo se determinato dalla relazione con 'tutti' gli elementi in gioco, colti, intuiti, razionalizzati, consci ed inconsci. La Tecnica, la Conoscenza stessa, se l’atteggiamento è tarato sull’ascolto, diviene elemento pari agli altri e con essi coniugato, quindi tendenzialmente sfruttata al meglio. Non è certo ripetendo pedestremente quanto dice, o non dice, il cartello stradale che realizziamo la massima sicurezza. Come potremmo evitare una sbandata se non usassimo come riferimento il sentire in sostituzione del sapere fornitoci dal cartello? Sennò, perché le scarpate delle stradine di montagna, protette solo da radi paracarri in pietra, non sono colme di carcasse d’auto?
Ognuno di noi può condividere che davanti ad un passo pedonale oltre al verde del semaforo è opportuno dare un’occhiata in giro, ovvero, privilegiare le informazioni scaturite dalla relazione piuttosto che quelle preconfezionate.
Solo quando la sicurezza dell’incrocio passa dal verde di quel semaforo all’ambiente – dalla tecnica alla relazione –, possiamo attraversare con il rosso a 'rischio zero'. Diversamente, si tende ad alzare il rischio: la presenza dell’imprevisto ovvero la ridotta creatività/energia utile per gestire l’imprevisto stesso.
È quando procediamo a testa bassa presi da “un solo” punto tra i molti, che “il temporale è arrivato all’improvviso”; che, “il buio ci ha sorpresi”; che “il vento è cambiato improvvisamente”.
La relazione contiene il massimo potenziale d’innalzamento della sicurezza, indipendentemente dalle conoscenze tecniche e dall’abilità motoria di cui disponiamo.
Attraverso questo modo, qualche sciatore – parlando di sci alpino, da pista – si preoccupa di fermarsi a bordo pista o comunque non in mezzo ad una strettoia o a valle di un dosso; qualche altro di ripartire solo dopo aver guardato a monte per verificare “spericolati dal controllo precario” in arrivo. Campioni di una ricchezza di tutti, mortificata in molti da una cultura che ha bisogno di essere aggiornata.
Come certi sciatori, molte madri, zie e nonne all’ora di pranzo hanno innumerevoli volte maneggiato pentole piene di “rischiosa” acqua bollente. Il rischio che corrono, che corriamo, è del tutto connesso con la perizia del nostro modo. Una perizia che si arricchisce, ma non si esaurisce, nella dimensione tecnica. Come avremmo potuto diversamente aver preparato innumerevoli volte la pasta, uscendone incolumi?
Già Walter Bonatti[5] si era accorto che non era la pistola la fonte della sicurezza per muoversi in ambienti selvaggi. Già Reinhold Messner[6] aveva messo in risalto il significato del ri-percorso storico come centro della ricchezza e della forza. Della sicurezza. Già Alessandro Gogna[7] aveva assunto come perno della prospettiva la ri-creazione, fatto individuale, mai massificabile, sinonimo di autenticità, bellezza e vita. Già Ivan Guerini[8] vide il Gioco su terreni tanto seri. Già Yvon Chouinard[9] aveva sentito che solo l’uomo ha dimenticato una parte dell’intelligenza animale che ha. Già Reinhard Karl[10] si era accorto che “la differenza tra uno sportivo e un alpinista non si può cancellare rincorrendo la competizione.” Che “la totale libertà di scelta rende l’alpinismo più uno stile di vita che non il solo sport.”
Quindi il mitico turista giapponese (inconsapevole ed incolpevole emblema dell’inettitudine) che esce dal rifugio Torino[11] in scarpe da tennis non adotta, di per sé, un comportamento rischioso. Noi stessi “esperti alpinisti” potremmo fare come lui. Giapponesi ed alpinisti tendono ad alzare il rischio se il comportamento è adottato senza tener conto degli elementi e delle richieste che l’ambiente e il sé continuativamente offrono e cangiano. Vi ricordate quando su un sentiero qualunque si alza lo sguardo per osservare in giro? Vi ricordate che s’inciampa subito?
Se la questione resta vera quando si trattano pochi e fisici elementi in gioco, quali quelli del naso per aria sul sentiero, aumenta di valore avvicinandosi ai piani più effimeri, volatili e metafisici della realtà.
Quelli che non si fanno misurare. Che non hanno un orientamento definitivo. Che una volta che sono passati possono ancora ripresentarsi. Che vivono in un polla volumetrica, nella circolarità del tempo, di un’identità che si chiama Tutto, che cangiano forma e carattere a seconda di chi è al loro cospetto e di quando è al loro cospetto.
In che termini si riduce la sicurezza muovendosi a testa bassa o a testa chiusa? La non relazione, a qualunque livello, alza la possibilità dell’imprevisto, della sorpresa, riduce l’habitat della creatività: la sola energia capace di re-inventare la soluzione appropriata, di scegliere tra tecniche specifiche (se se ne hanno) o di combinarle in modo inusuale o nuovo, euristico, serendipidico.
Razionalistico. Materialistico. Positivistico. Sono una specie di sintesi nei confronti della quale potremmo darci da fare per emanciparci con le loro strette prospettive.
È per ordine razionalistico che riteniamo che la sicurezza sia del tutto relativa a ciò che sappiamo e a ciò che abbiamo. Saperi è abilità, in molte circostanze, sono richiamate quali uniche fonti necessarie alla sicurezza.
È per ordine materialistico che oltre al sapere (tecniche) e all’avere (materiali) non si arriva alla soglia di se stessi per scorgere quanto universo ci è negato dall’orizzonte materialistico, quanto sentire è castrato a favore del capire.
È per ordine positivistico che, solo la buona prestazione fa testo, solo in lei viviamo l’autostima da vantare, solo in lei esiste l’assassinio della rinuncia in quanto eventualità del tutto deprecabile.
In quest’epoca nelle espressioni della nostra cultura, giornalismo/media di comunicazione, scuola, istituzioni, legislazione, scienza, pubblicità, si trova l’induzione a pensare/credere che la sicurezza stia nel materiale e nelle tecniche. Due cose fuori da noi, acquisibili, e nelle quali – inconsapevolmente – rimettiamo la nostra sicurezza soprattutto a causa della concezione originaria, mai scaturita da un atteggiamento critico, sempre riferibile al più usato e comodo “così fan tutti”. La sicurezza si riduce così a mero prodotto di un atto acquisitorio, sembra che possa essere o meno indipendentemente dalla nostra responsabile presenza. Sembra che la consapevolezza del valore del modo della relazione non faccia testo. È da questa concezione e condizione che nasce l’idea che spittare alza la sicurezza, che il Gps sembra indispensabile, che regolamentare la natura sembra una conditio irrinunciabile a tutte le amministrazioni pubbliche. “Giusto”! A patto che gli scalatori ri-cerchino in sé e non fuori da sé il nodo della sicurezza. “Sbagliato”! Se avvicina inconsapevoli persone tarate secondo il positivisticamente degradato volere è potere, incapaci di essere senza identificarsi in qualche quantità, inconsapevoli sottoscrittori dell’assolutistico cogito ergo sum[12].
La relazione con l’ambiente/sé dà quindi una possibilità altrimenti remota, latente ed occasionale nella nostra cultura. Dà la possibilità di riconoscere – in modo via via più raffinato – quanto viviamo la nostra natura attraverso il mondo delle idee (meccanicismo) e quanto attraverso quello dei sentimenti (autenticità). Quanto le une possano portarci ad adottare comportamenti e scelte incapaci di esprimere il legame con la Terra. Quanto le altre ci permettano di accedere anche a dimensioni dove non possiamo più dire “io”, dove la vita si è compiuta senza pensarla. Un significato delle due dimensioni comporta la presa di coscienza dell’attuale prevaricazione di una rispetto all’altra. La possibilità di emanciparci dai limiti di una per accedere e sfruttare quelli contenuti nell’altra.
Continua...
Note
4. Werner Munter, guida alpina svizzera che ha messo a punto un metodo detto anche del “3X3” per stimare il grado di fattibilità di una gita in ambiente innevato. Lo studio è eccellente. Lo è molto meno il fatto che è ritenuto da molti come il metodo per eccellenza per decidere se fare o meno una gita.
5. Sebbene noto in tutto il mondo alpinistico per il valore complessivo e storico delle sue salite e delle sue battaglie, Bonatti è qui citato per le sue affermazioni relative ai viaggi da lui realizzati in terre e territori totalmente naturali, non solo montani.
6. Messner non ha mai tralasciato l’opportunità di dare alla storia parte della forza che ci spinge avanti. Non solo, la sua precisazione è ulteriormente consistente: ritiene cioè che la nostra biografi a acquisisce una dimensione piena - meno vulnerabile - proprio quando nel nostro individuale fare ripercorriamo a nostra misura il percorso compiuto dalla storia.
7. Noto nel mondo alpinistico internazionale per il suo alpinismo classico in solitaria, in inverno e non solo. Fu tra i primi a prendere coscienza della forza e dell’ineluttabilità del cambiamento generazionale che proveniva dal free climbing, che coniugava interessi alpinistici slegati dal mito della prestazione e dell’ideale, ma legato a quello individuale ed ecologico della ri-creazione. Fu uno dei consacratori e valorizzatori delle prospettive che si affacciavano allora all’orizzonte (Nuovo Mattino), sottolineandone i principi e l’energia. Un fatto non da poco se si considera l’estraneità di quei principi dal tradizionale e patriarcale modello dell’alpinismo classico.
8. Noto scalatore italiano, per molti, una delle figure emblematiche del “Nuovo Mattino”, movimento alpinistico-culturale che raccoglieva i disagi dei movimenti giovanili e gli spunti ecologici provenienti dalla beat generation, dal ‘68, dal clean climbing.
9. Alpinista, surfer, pescatore alla mosca, fabbro e imprenditore. In tutte le sue attività ha avuto modo di muoversi secondo un modello che rifi utava del tutto la meccanizzazione dei processi e delle relazioni. Nonostante si muovesse controcorrente, anche il successo imprenditoriale (è il fondatore di Patagonia TM e Black Diamond TM) ha dato ragione alla sua fede.
10. L’energia della voce e della sua presenza manca a molti di noi. Riuscì a pronunciare e definire dimensioni umane che una tradizionale prospettiva storica voleva come contraddittorie. La sua voce poco ortodossa è stata raccolta anche da chi ancora non aveva messo a fuoco che le nostre diverse espressioni sono solo aspetti di noi stessi che gli altri ci mostrano.
11. Emblematico rifugio del Monte Bianco, noto a tutti gli alpinisti e super-frequentato a causa dell’accessibilità con la funivia.
12. Formula adottata da Descartes, che allude alla svolta razionalista ed illuminista, attraverso l’idea che l’uomo esiste prioritariamente a causa del suo pensare.
L' articolo è la seconda di tre puntate sulla cultura della relazione, una riflessione avvenuta all'interno dell'associazione Victory Project