di
Lorenzo Merlo
03-03-2011
Dopo averci introdotto alla riflessione sulla cultura della relazione e averci interrogato sulla nostra percezione della sicurezza, Lorenzo Merlo, dell'associazione di montagna Victory Project, ci spiega che è proprio nella relazione che si trova la sicurezza più autentica nel vivere la natura e i luoghi.
Le relativamente recenti e sempre più numerose rotonde o rotatorie[13], – espediente per fluidificare il traffico stradale – non sono un’espressione che realizza sicurezza attraverso l’assunzione della responsabilità individuale di ogni automobilista?
È una sicurezza che ognuno di noi realizza attraverso la relazione con la situazione che via via gli corre incontro. Con lo stesso criterio a Drachten, Olanda, a Bohmte, Germania e in una zona di Londra, è stata tolta la segnaletica stradale. Un modo di fare, procedere e concepire che implicitamente critica il criterio assistenzialista e regolamentista, guarda caso ampiamente disponibile in contesti culturali meno apprettati. Istanbul, Napoli e Bangkok vantano forse una quantità di infrazioni stradali considerevolmente minore di quanto non accada più a occidente, nonostante la 'totale' mancanza del rispetto delle regole della strada. Ma se il traffico stradale può sembrare argomento già noto, forse è utile accennare alla prigione norvegese di Bastøy. I detenuti realizzano il loro reinserimento sociale attraverso la loro autonoma ed individuale crescita della responsabilità piena del loro comportamento.
Per quanto in Inghilterra a Leiston, esista dal 1921 una scuola dove i ragazzi seguono ed imparano rispettando la propria motivazione, il sentimento e il ritmo; per quanto in Italia sia esistito l’esempio di relazione con il prossimo offertoci dal dottor Franco Basaglia[14], è del febbraio 2010 l’idea governativa di intervenire con sanzioni amministrative e penali nei confronti di chi provoca incidenti in montagna.
Ma il regolamentarismo non fa. Se il regolamentarismo è l’unica via, se non è affiancato da una azione culturale c’è da essere contrari: produce dipendenza, è una forma di assistenzialismo.
Se invece fosse affiancato da una opportuna campagna di comunicazione culturale, tendente a creare emancipazione ed indipendenza, diverrebbe più accettabile.
Condannare e multare chi provoca incidenti è come lo standard del carcere (almeno in Italia): vorrebbe emancipare le persone ai criteri della società civile ma, di fatto, è spesso un ghetto dove la malavita si struttura ulteriormente, cresce.
La spinta a consumare turismo, ad aumentare il pil, ha portato in montagna una messe di persone totalmente ignare di cosa implichi il muoversi in natura. Convinte che sapere sciare fosse sostanzialmente l’unico problema. Chi ha voluto quella spinta ora dovrebbe assumersi l’onere di rivederne il valore e quello di adoperarsi affinché quei bravi sciatori inizino a sentire anche altri argomenti oltre a distensione e piegamento. Argomenti della montagna, trasmissioni tv, radio, manifestazioni, dove si percepisca che un pendio di neve non è come il prato di un campo sportivo chiuso. Che la neve è un essere vivente, cangiante in ogni momento, esposizione, quota, periodo dell’anno, della giornata, latitudine e stagione, che il giorno dopo può avere carattere diverso dal giorno prima. Che solo se inizi a sentire-ascoltare-osservare la neve puoi iniziare a scoprire dimensioni utili all’iniziazione necessaria per re-interpretare la montagna, se stessi, ciò che si fa e come lo si fa. Solo se divieni consapevole che la fede nella sola conoscenza tecnica è il vero impedimento all’ascolto, la vena della relazione inizia a pulsare.
Diversamente dalle rotonde per il traffico, in altri contesti si osserva il prodotto del criterio positivista, razionalista o più semplicemente del profitto, capitalista. Comunque inumano. Sebbene la tradizione dimostrasse da secoli quanto inconveniente fosse edificare alla base dei canaloni di montagna o sul margine dei corsi d’acqua, la fiducia e la fede, nella tecnologia, hanno permesso edificazioni o arginamenti e bonifiche nella convinzione di poter gestire le dimensioni della natura senza però averla respirata, senza esserla stata.
La considerazione che, allora, sono le tecniche che riducono la possibilità del panico, apparentemente contraddizione del discorso, perde di portanza se si prende coscienza che la logica della sicurezza-nella-relazione non vuole essere una alternativa alla logica della sicurezza-nella-conoscenza. Vuole solo puntualizzare che, per quanto già tutti noi ci si comporti in molte circostanze, in funzione delle informazioni raccolte attraverso la relazione con l’ambiente, e non solo nell’alpinismo, quando parliamo di sicurezza, esperti inclusi (e primi responsabili) frequentemente utilizziamo un linguaggio che non contiene né sottolinea e valorizza la dimensione umana, della relazione appunto.
Una prevaricazione della dimensione razionale e una cultura intellettualistica, quale è la nostra, non favorisce il recupero di una identità corporea, del valore dell’ascolto, della relazione come principio delle cose. Siamo quindi esseri intossicati dalle idee. Con la respirazione spesso superficiale. È una corrente che ci travolge, che ha definitivamente fatto passare il concetto di sport anche per le attività che si svolgono in ambienti aperti. Entro questa apparente innocua estensione dell’accezione, dal campo da tennis alla parete nord, convive simbioticamente una proposta d’atteggiamento inadeguata e contraddittoria per alzare la sicurezza. La sportivizzazione, il prestazionalismo, l’attenzione alla 'Quantità' delle cose, materiali di ultima generazione, equipaggiamento come da pubblicità, “c’è riuscita mia sorella! Devo farcela anch’io!” Le tecniche concepite come il fondamento per frequentare le montagne non fanno che spingerci lontano dal centro: la nostra motivazione, la nostra dimensione, la nostra libertà gratificata.
Quando Messner scalava la Prima Torre del Sella con le scarpe da tennis (poi le ha passate al mitico giapponese), in molti (tutti?) ridevamo. Lo deridevamo come si farà poi fuori dal Torino, cioè ritenevamo che quanto sapevamo già corrispondesse a tutto quanto ci sarebbe stato da sapere. Nella fattispecie, che la mia 'sintesi' è quella giusta; che la tradizione è verità definitiva ed in particolare che lo è un suo degrado, i luoghi comuni. Un fondamentalismo!
Se il Ministero della Pubblica Istruzione così come una singola e forse sola maestra volessero operare per diffondere la cultura della relazione, a che risultato dovremmo aspirare? Ad uno e semplice.
Se ad un gruppo eterogeneo di bimbi venisse chiesto in cosa consiste la sicurezza, se oltre agli aspetti tecnico-analitici dovessero anche mettere in evidenza che molto dipende dall’atteggiamento e dal modo che adottiamo, avremmo raggiunto il punto nodale per avviare un aggiornamento culturale. Un punto dal quale il corpo non sarà più paragonato alla macchina, le persone saranno tutte diverse e così pure la didattica a loro necessaria per il loro apprendimento, la natura non sarà più solo terreno di gioco, la realtà non ci starà più nelle colonne 'pro' e 'contro', la maieutica diventerà un valore.
Che morale dunque? Parlare di sicurezza in questi termini è maggiormente efficace che limitarsi a citare il famigerato “rispetto per la montagna” o il contemporaneo alter ego di “natura amica”. Due formule eventualmente capaci di contenere la verità soltanto per coloro che le pronunciano, non per coloro per i quali sono pronunciate: l’esperienza, dicevamo, non è trasmissibile. La natura è la natura, per cavalcarla bisogna sentirla. Accedere a se stesso prima che alle tecniche, permette ad ognuno di riconoscere la sede del problema, permette di riconoscere quale percorso di avvicinamento più si addice alla nostra crescita, alla nostra forza e bellezza. Per riconoscere quali preconcetti si stanno impiegando. Permette di aggiornare il linguaggio, di cogliere il vero nel patrimonio della propria memoria/esperienza 'senza più' cercare di ricordare “cosa ha detto di fare l’istruttore in questi casi?”, di pensare che la lacerazione mente/corpo-natura/cultura possa avere un’opportunità di riduzione. 'Nessuno' più dal Torino scivolerà dentro un crepaccio, neppure volontariamente.
Che fare dunque? In una cultura maschilista, quale la nostra, recuperare l’eterno femminino, non è cosa alla mano, ma è la via. La ricerca del sentire è una condizione di profonda fertilità per tutte le attività umane, quindi un’intelligenza disponibile a tutti, sempre che la cultura della relazione abbia da tutti noi la spinta che possiamo dedicarle.
Essere attraverso il sentire, riconoscere che si era sempre stati attraverso il pensiero, significa emanciparsi nei confronti di un giogo culturale enorme, permette di indagare il mondo e l’altro – ora empatico – in modo non più pregiudiziale. Permette una comunicazione prima impensata.
La consapevolezza di qualcosa comporta l’accesso a prospettive fino ad allora mai visitate. Un modo per dire ancora una volta che non è con la dinamica maestro/allievo-conoscere/migliorare che possiamo cercare la via ma con quella dell’ascolto. La circostanza della presa di coscienza è quella in cui, per esempio, si può scoprire come i pregiudizi ideologici spesso riescano ad avere ragione sulla verità del sentimento che proviamo. Una ragione così consistente che riesce frequentemente ad obnubilare ciò che sentiamo, proviamo, viviamo. Le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, le intuizioni non devono necessariamente avere la priorità – e veniamo al punto –, ma che almeno vengano riconosciute in noi. Che almeno ciò che il corpo ci urla giunga a noi idoneamente accreditato per entrare a far parte, insieme alle idee, del minestrone dal quale trarremo la mestolata della verità.
Riconoscere i sentimenti, il corpo e le sensazioni è un modo di conoscenza di noi e del prossimo, ma è anche l’antidoto alla cultura intellettualistica e moralistica. Non per contrastarla, per integrarla. Un fatto che in pedagogia si chiama di 'maturità' o di 'autonomia'. Quale senso critico può scaturire da colui incapace di eleggere a valore il proprio sentimento e la propria sensazione se non ha la possibilità culturale per farlo, se non ha l’educazione per sentirlo, il diritto di esprimerlo?
Note
13. Snodi stradali ora adottati in alternativa ai tradizionali incroci regolati dai semafori.
14. 1924-1980. Psichiatra italiano noto al mondo accademico e sociale per essersi adoperato affi nché venisse riconosciuta al malato mentale tutta la dignità dovuta ad ogni essere umano. La sua battaglia si concretizzò nonostante l’arretrato contesto nel quale dovette muoversi. Una legge nazionale, la 180, sanciva defi nitivamente il suo apporto medico e culturale, riuscendo nell’intento di eliminare i manicomi-carcere.