di
Andrea Degl'Innocenti
05-09-2011
La manovra economica presentata dal Governo spinge gli enti locali verso la privatizzazione dei servizi. L'esito dei referendum del 12 e 13 giugno rischia seriamente di essere stravolto. Cosa resta allora della ventata di cambiamento che si è respirata all'inizio dell'estate? Per capirlo è necessario andare oltre il muro dell'antiberlusconismo e iniziare a cogliere la regia internazionale che si cela dietro alle politiche finanziarie italiane.
È con un velo di malinconia che, scorrendo le immagini delle piazze gremite del 13 giugno, mi accingo a scrivere di come, a neanche tre mesi dalla consultazione popolare, gran parte del valore espresso dal voto popolare se ne stia scivolando via lungo le rapide di una scellerata manovra economica.
Lo hanno detto e ribadito in molti negli ultimi giorni. In un comunicato il Forum Nazionale dei Movimenti per l'Acqua, promotore dei due quesiti referendari, ha definito la manovra “una chiara violazione della Costituzione poiché il popolo italiano si è pronunciato con referendum contro l'affidamento al mercato di tutti i servizi pubblici locali previsti dal Decreto Ronchi”.
Dalle pagine virtuali del Fatto Quotidiano Ugo Mattei, giurista tra gli estensori dei quesiti sull'acqua, ha sostenuto che “la vendita dei servizi o una forzatura in questa direzione va contro il primo referendum, oltre ad essere incostituzionale”, mentre il suo collega Alberto Lucarelli, altro estensore dei quesiti e attualmente assessore ai beni comuni nella giunta di De Magistris, ha parlato di una manovra che “sovverte quanto aveva già detto la Corte costituzionale nel gennaio 2011 sull’ammissibilità dei referendum”.
Il nodo della questione sta nell'articolo 4, che a detta del governo dovrebbe rappresentare l'adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea. In realtà l'articolo non adempie a nessuno degli scopi prefissi, ed anzi è in netto contrasto con la volontà espressa dai 26 milioni di italiani che hanno votato sì ai primi due quesiti dei referendum. Quesiti che, è bene ricordarlo, non riguardavano soltanto l'acqua, ma anche il trasporto pubblico locale e la gestione dei rifiuti solidi urbani.
L'articolo 4 è una apertura senza precedenti alle privatizzazioni dei servizi locali, tale da far impallidire persino il decreto Ronchi. Esso prevede una “gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Ma il centro della questione, come nota Luca Martinelli in un articolo per Altraeconomia, sta nel fatto che se da una parte gli enti locali che vorranno mantenere la gestione cosiddetta 'in house' saranno costretti ad osservare il patto di stabilità interno, che prevede un taglio netto alle spese, dall'altra sono previsti 500 milioni di euro a favore di quegli enti locali che rinunceranno alle proprie partecipazioni azionarie.
Da un lato si obbliga il pubblico che si ostina a gestire i servizi ad operare in un regime di ristrettezza, dall'altro si elargiscono fior di milioni a chi privatizza. Con un ulteriore incentivo, contenuto nell'articolo 5: i 500 milioni di cui sopra potranno essere spesi dagli enti locali senza tener conto del patto di stabilità. Si tratta di un vero e proprio ricatto per tutti quei comuni già strozzati dai tagli ai bilanci che si vedranno costretti, volenti o nolenti, a privatizzare.
Così finiranno nel tritacarne della privatizzazione selvaggia i trasporti, gli asili, i rifiuti, e tutti quei servizi che rientrano nella categoria dei servizi pubblici locali. Ma sarebbe scorretto – decisamente troppo semplicistico – addossare tutte le colpe al governo. Celarsi dietro al muro dell'antiberlusconismo è diventato un altro – ulteriore – strumento della cattiva informazione di casa nostra. Il ruolo principale del Cavaliere, attualmente, sembra essere proprio quello di fare da parafulmine: convogliare su di sé e sul suo esecutivo le critiche e l'indignazione popolare, coprendo così le mani occulte che muovono le fila del paese. Un ruolo forse inedito per il premier, ma che sicuramente gli conferisce il più alto indice di gradimento in ambito europeo da quando è alla guida della nazione e gli dona un posto in sella leggermente più saldo, seppur privo di redini.
Le redini dell'Italia le hanno in mano poteri ben più forti. Ad ammetterlo è persino un economista dal taglio decisamente europeista come Mario Monti, che in un editoriale per il Corriere del 7 agosto scrive : “Il governo e la maggioranza [...] per cercare di risollevare un'Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un 'governo tecnico'”. E continua: “le decisioni principali sono state prese da un 'governo tecnico sopranazionale' e, si potrebbe aggiungere, 'mercatista', con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York”.
Monti, da europeista convinto, liquida la questione bollando come estremamente positivo per l'economia nazionale l'intervento dell'Europa, che egli considera alla stregua di un “Podestà forestiero”, dunque super partes. Ma non è forse arrivato proprio dall'Europa il terribile attacco finanziario che l'8 luglio scorso ha messo in ginocchio Piazza Affari, aggravando pesantemente l'economia nostrana e rendendo urgente l'attuale manovra
E siamo sicuri che i referendum non c'entrino niente? Senza avere la pretesa di avere la verità in pugno, con la sola volontà di abbozzare un'ipotesi, è interessante ricostruire la cronologia degli avvenimenti a partire dai referendum:
1. Il 12 e 13 giugno i cittadini italiani hanno espresso a maggioranza assoluta la volontà di partecipare alla gestione del servizio idrico e dei servizi locali, sottraendo così a investitori privati – spesso multinazionali straniere, si pensi a Veolia o GDF – una grossa fetta di mercato.
2. Neanche un mese dopo un attacco finanziario internazionale mette in ginocchio la pur sconquassata economia italiana e rende necessaria una manovra di salvataggio.
3.Tale manovra economica viene dettata al governo dai poteri forti internazionali, gestita dalla Bce ed avallata dal Fmi, e prevede un'ondata di privatizzazioni che vanificano in buona parte l'esito sul referendum e cercano di ammazzare sul nascere quella brezza di cambiamento che si avvertiva a metà giugno.
Insomma, c'entrino o non c'entrino i referendum, è chiaro che la manovra è una bastonata sulla schiena di quei 26 milioni di italiani che con il proprio voto avevano provato a riprendersi quella quota di sovranità popolare che gli era stata negli anni sottratta. Qualcuno obietterà che la gestione del servizio idrico, oggetto principale del referendum, non è stata toccata dalla manovra, se non in maniera marginale. È vero, ma la gestione pubblica e partecipata dell'acqua assume il suo vero significato solo se inserita in un sistema sociale che prevede in tutti i suoi aspetti – o perlomeno in una parte crescente di essi – il coinvolgimento attivo dei cittadini. Assume invece il sapore della beffa se rimane un'eccezione, un feudo comune incapace di imprimere uno stimolo di cambiamento al resto della società.
Ora, in questo afoso inizio di settembre, quel che si prospetta all'orizzonte è un autunno ancor più caldo, che inizierà probabilmente con lo sciopero generale del 6 settembre. Per tornare alla domanda iniziale, “cosa resta dei referendum?”, immagino che stia a noi deciderlo. Consapevoli del fatto che nessuna soluzione può essere presentata dall'alto come inevitabile e nessuna decisione può essere presa senza l'accordo e la partecipazione dei cittadini.