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14-12-2010
In piazza e sui tetti, per strada e nelle aule. Il movimento di protesta studentesca che negli ultimi mesi si è fatto più intenso non può essere ridotto alla formulazione del "no alla riforma", ma si gioca sulle connessioni tra sapere, lavoro e cittadinanza. Gli studenti della Facoltà di Lettere di Roma Tre ci raccontano il valore politico dell'occupazione come un momento di confronto su una crisi, quella dell'università pubblica, che riflette un più generale smembramento della società.
Probabilmente la prima questione da sollevare è il punto di vista da cui elaboriamo quest’articolo. Esso è il frutto delle riflessioni e delle pratiche che si sono svolte nell’ultima settimana all’interno della Facoltà occupata di Lettere e Filosofia di Roma Tre. Un periodo che abbiamo sentito la necessità di prendere per poterci dedicare alla riflessione, alla discussione e al confronto sulle questioni sollevate dal DDL Gelmini su università e ricerca.
L’occupazione apre agli studenti e alle studentesse uno spazio e un tempo vuoti e a disposizione, che danno modo di inventare e creare nuove pratiche per informarci e prendere coscienza delle urgenze in cui l’università e la ricerca versano ormai da tempo e che coinvolgono la politica di differenti governi, con differenti orientamenti politici.
Nonostante abbiamo ben presente l’importanza del sapere che ripensiamo e sperimentiamo nei termini di un bene comune da più di due anni, a partire dall’Onda, la decisione è stata quella di interrompere la didattica per una settimana per sottrarci in questo tempo e in questo luogo all’ottimo pretesto della frequenza obbligatoria delle lezioni, e alla quotidianità dei corsi, e per creare una zona temporaneamente autonoma in cui costruire un vissuto politico e una coscienza. La pratica dell’occupazione in più evidenzia una discontinuità che assume il significato simbolico di una rottura rispetto alla quotidianità e alla vita politica istituzionale italiana.
Con questa intenzione l’assemblea di Lettere e Filosofia ha aperto l’università al mondo non universitario. Attraverso una pratica incentrata sull’orizzontalità, costruita attraverso relazioni di fiducia e responsabilità reciproca, e dunque politica, ci sono stati scambi di idee e si è dato vita allo spazio vuoto creato.
Tra le altre cose, è stato organizzato un cineforum sulle migrazioni che ha aperto un dialogo tra studenti e migranti stessi. Incontri con i precari della conoscenza e della produzione materiale hanno messo a tema la condizione esistenziale dei lavoratori e delle lavoratrici e le invenzioni di questa nuova quotidianità. Tutto questo per sottolineare come il movimento di protesta studentesca non può essere ridotto alla formulazione del "no alla riforma", ma si gioca proprio sulla connessione tra i mondi e i temi dell’università, della produzione e della migrazione. Sarebbe a dire sapere, lavoro e cittadinanza.
La riforma amministrativa e l’organizzazione dei saperi che vengono presentati agli studenti e alle studentesse di Roma Tre ricalcano, infatti, quella stessa crisi che, sia a livello burocratico che concettuale, ha investito il modello politico italiano, distruggendo la cultura, precarizzando il lavoro ed emarginando la diversità.
Il progetto AsTre dell'Università Roma Tre, ad esempio, realizza concretamente le logiche neoliberiste nell'ambito del sapere. Da una parte sceglie una ristretta minoranza di studenti (40 per ogni collegio didattico) sulla base del 'merito', in realtà premiando più la capacità di stare in regola con gli esami che una media elevata. Lo stesso concetto di 'merito' è quindi da questo punto di vista una strategia retorica di naturalizzazione e legittimazione del differenziale sociale, in base al quale vengono emarginate tutte quelle soggettività studentesche che non hanno accesso a condizioni favorevoli allo studio. Allo stesso modo l'alta scuola si trova così a produrre dei super-professionisti che mettono la propria intelligenza al servizio dell'ordine costituito.
Nello specifico, per quanto riguarda l’università e la ricerca, questa riforma rientra pienamente in un quadro generale di progressiva razionalizzazione e quantificazione delle istituzioni e delle realtà di vissuto ad esse collegate che sopperisce a un’esigenza di maggiore controllo fornendo l’illusione di sicurezza e stabilità.
All’interno dell’università, ciò è riscontrabile nell’appiattimento dei saperi e dei percorsi di chi studia su criteri standardizzati e oggettivanti che da una parte frammentano e parcellizzano l’identità degli studenti e delle studentesse, sempre più intrappolati nella logica utilitaristica dei crediti e degli esami, mentre dall’altra garantisce, agli occhi dell’istituzione, la possibilità di controllare la vita della stessa università, ormai luogo di passaggio di utenti isolati. In questo modo si cerca di disinnescare quelle relazioni che producono scambio di sapere e un approccio critico nei confronti dell’università e del reale. Un deterrente per la politica dei movimenti.
Nella retorica governativa, i tagli vengono perciò presentati come panacea per un’università malata e sprecona, mentre la riorganizzazione attraverso corsi d’eccellenza e fondazioni private viene esibita come la risposta della meritocrazia a un’università in mano ai baroni e alle loro logiche clientelari. In realtà sia i primi sia la seconda sottendono invece l’unico scopo di consegnare l’università in mano ai privati, creando un sapere d’élite, ossequiando un paradigma esclusivamente economico (è già una fortuna che sia passato alla Camera un emendamento che non permetterà il commissariamento del Ministero dell’Istruzione da parte del Ministero dell’Economia!).
Quello che nello specifico stiamo vivendo, come studenti e studentesse, rientra in un quadro molto più ampio di tagli del Welfare e svuotamento dei diritti, che evidenzia la connessione tra i tre ambiti già nominati. La riorganizzazione dell’università che, da luogo privilegiato dell’educazione alla cittadinanza si vuole trasformare a fabbrica di identità per il mercato delle risorse umane, è soltanto l’ulteriore tappa del più generale smembramento della società.
Dapprima i migranti, identità senza status rese visibili soltanto all’interno di politiche securitarie che le rende capri espiatori per uno Stato che, alla ricerca della propria stabilità, delinea i propri confini escludendo. Il mondo del lavoro, smantellato a colpi di precarietà, versa in una crisi che investe non soltanto i giovani ma anche le categorie tradizionali del cosiddetto lavoro fisso: assenza di tutele, nessuna garanzia per il futuro, impossibilità di relazioni durature sul luogo di lavoro sono elementi che destrutturano la figura del lavoratore, sulla quale tradizionalmente si definisce l’idea stessa di cittadinanza. Crisi del lavoro e crisi della cittadinanza si compenetrano e s’implicano a vicenda attraverso modalità che si possono già rintracciare nelle dinamiche universitarie dapprima descritte.
Risulta per altro evidente come questa presa di posizione da parte degli studenti e delle studentesse non si muova soltanto contro il DDL Gelmini ponendosi come antagonista nei confronti di un intero dispositivo di sapere e di un potere in crisi.
Nelle strade, nelle nostre aule e nei corridoi occupati, a rendere vivi noi studenti e studentesse non c'è solo la rabbia e la protesta. C'è un nostro modo di agire, di pensare, che si compenetra attivamente con il nostro rifiuto del modo esistente di intendere la cultura e di gestire la realtà dell'università. Attraverso pratiche di riflessione, momenti di scambio, di messa in relazione, in queste aule elaboriamo un sistema altro di produzione di sapere, basato su dinamiche calate direttamente nelle nostre esistenze.
Ad una cultura fatta di crediti, competenze, pacchetti informativi che rendono la carriera universitaria una corsa individuale al raggiungimento dello status di 'laureato full optional', appetibile per un mondo del lavoro che non ha bisogno di lui, noi opponiamo un sapere che è relazione, scambio fuori dalle gerarchie, nato da individualità incarnate e diffuso senza perdere il contatto col reale.
Ad un sapere fatto di nozioni, preferiamo un sapere fatto di vita, dove anche il concetto più astratto e il calcolo più complicato sappiano mantenersi in relazione con la soggettività di chi apprende e di chi pone il suo sapere in circolo. All'utilitarismo cui conduce il sistema dei crediti e del 3+2, preferiamo la responsabilità educativa.
In questo senso guardiamo all'università, alle sue stesse strutture, non come a luoghi di passaggio verso il mercato. Piuttosto, questi muri, queste aule acquistano ai nostri occhi il valore di uno spazio di vita. Attraverso l'occupazione ci riappropriamo simbolicamente del valore e del senso di quei momenti di vissuto che le politiche governative tentano di soffocare, rendendo la facoltà, di nuovo, lo spazio per la creazione di legami.
Studenti e studentesse di Lettere occupata
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