di
Andrea Degl'Innocenti
05-04-2012
È stata approvata ieri la riforma del mercato del lavoro, e con essa le modifiche all'articolo 18. Dopo giorni di trattative fra governo e parti sociali, la formula definitiva sembra confermare la vittoria del mercato sui diritti delle persone.
È stata approvata ieri la riforma del mercato del lavoro, e con essa le modifiche all'articolo 18. Dopo giorni di trattative fra il governo, i partiti e i sindacati, la formula definitiva sembra lasciare tutte le parti in gioco – chi più chi meno – relativamente soddisfatte. Vediamo in breve le modifiche apportate al mercato del lavoro ed in particolare all'articolo 18.
In generale la riforma è stata definita con l'intenzione di "diminuire la flessibilità in entrata ed aumentare quella in uscita" nel mercato del lavoro. Questo dovrebbe corrispondere, in soldoni, a più garanzie per chi è disoccupato e spera in un'assunzione e meno diritti per chi lavora e teme di essere licenziato. La riforma va a braccetto con il tentativo di ridurre al minimo l'assistenzialismo dello stato: da un lato si eliminano le barriere in entrata ed in uscita al mercato del lavoro, dall'altro si annulla lo stato sociale per ottenere un flusso di lavoratori il cui numero e i cui diritti siano regolati esclusivamente dalle leggi di domanda e di offerta.
Per il primo obiettivo, la diminuzione delle barriere in entrata, vengono introdotte norme formalmente volte a rendere più costosi i contratti a termine, punire gli abusi sulle collaborazioni a progetto, il lavoro a chiamata, le associazioni in partecipazione e le partite Iva. Per capire se si tratta effettivamente di un passo in avanti, bisogna vedere se ci saranno reali ripercussioni sulle condizioni dei lavoratori del precariato. La gravità della situazione necessita di riforme ben più radicali.
Per aumentare la cosiddetta “flessibilità in uscita” si è invece intervenuti proprio sull'articolo 18, simbolo di anni di lotte sociali e rivendicazioni dei lavoratori. Rispetto al disegno originale di legge, che prevedeva modifiche più drastiche, le mediazioni di partiti e sindacati sono riuscite a far passare una riforma più morbida.
L'articolo 18, nella sua versione storica, prevedeva il reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa. Vi erano, nel dettaglio due tipi di licenziamenti contestabili: quelli per motivi discriminatori e quelli per motivi economici con insussistenza del motivo del licenziamento.
Nel caso dei licenziamenti discriminatori l'articolo resta invariato. Ma d'altronde nessun datore di lavoro si sognerebbe mai di addurre come motivo del licenziamento una qualche sorta di discriminazione. Dunque la chiave dell'articolo 18 sta nei licenziamenti per motivi economici, per i quali la vecchia versione prevedeva sempre il reintegro nei casi di insussistenza del motivo del licenziamento.
Nel disegno originale presentato dalla Fornero si prevedeva invece che al lavoratore spettasse al massimo un indennizzo tra 15 e 27 mensilità. La mediazione di partiti e sindacati ha poi ottenuto due modifiche: che se il lavoratore dimostra la reale natura discriminatoria del licenziamento, celata sotto ragioni economiche, venga applicata la relativa disciplina, e che torni la possibilità – non l'obbligo – di reintegro, nel caso in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico.
Ad ogni modo la riforma dell'articolo 18 ha un valore essenzialmente simbolico. È una vittoria dei mercati non tanto dal punto di vista economico – riguarda una percentuale minima dei licenziamenti, mentre ci sono ben altri problemi che spaventano gli investitori stranieri, mafia ed evasione su tutti – quanto da quello sociale. Il governo delle banche, quello non democraticamente eletto, è uscito vittorioso su un campo dove nessuno fino ad ora era riuscito a spingersi, arrivando a toccare il simbolo di tutte le lotte e rivendicazioni sociali (espressione a loro volta di un modello socio-economico da sconfiggere, nell'ottica neoliberista dominante).
Intanto, il disagio sociale cresce, non solo fra i lavoratori a contratto, ma anche fra i piccoli imprenditori. Un'inquietante statistica della CGIA di Mestre, l'Associazione Artigiani e Piccole Imprese, testimonia come tra il 2008 ed il 2010 i suicidi per motivi economici siano aumentati del 24,6 per cento, e i tentativi di suicidio, sempre legati alle difficoltà economiche, del 20.
Dati sintomatici della difficile situazione italiana, che devono far riflettere. Purtroppo per noi la soluzione non arriverà dalle riforme del governo, né da una rinnovata fiducia dei mercati, né dai tanto auspicati investimenti cinesi. Ci troviamo in un momento storico che vede uno scollamento totale fra gli interessi di chi ha in mano il potere esecutivo e decisionale e quelli delle cittadinanze. Per quanto possa apparire difficile, il compito di uscire dalla crisi, di reagire alla crisi (che non è solo economica, ma ambientale, sociale, culturale, in altre parole sistemica) spetta a noi. Non come individui solitari, ma come membri di una collettività che dobbiamo sforzarci, giorno dopo giorno, di ricostruire.