di
Elisa Magrì
06-05-2011
Abituati dalle statistiche e dalle quotidiane storie di disagio a sentirci “precari”, abbiamo finito con il perdere di vista la funzione sociale del lavoro e a non riconoscerci più come soggetti attivi, che operano sulle condizioni del presente. Se è vero che la crisi economica in cui versiamo si è gravemente inasprita nell'ultimo decennio, il dibattito che l'accompagna non ci fa capire la distorsione subita oggi dal lavoro e quali siano i concetti chiave per progettare il cambiamento. Proprio da questi bisogna ripartire per riprenderci il lavoro e la vita.
La parola 'precario' deriva dalla prece, ovvero dalle formule rogatorie con cui i contadini richiedevano anticamente terra da coltivare e protezione dalla nobiltà. Col tempo il termine è venuto a designare, in senso proprio, la dimensione della dipendenza, dell'insicurezza e dell'impossibilità a decidere della propria vita e del proprio mantenimento.
Oggi è divenuto talmente consueto adoperare l'aggettivo precario in relazione ai disoccupati, agli interinali e quanti godono solo di contratti a tempo determinato, che a malapena badiamo ai significati che accompagnano il concetto di precarietà. Si tratta soltanto di una specifica contingenza economica, o definisce anche l'atteggiamento con cui si guarda alla dimensione del lavoro? Il campanello d'allarme di questa condizione risuona così di frequente nei media da far trascurare l'importante distorsione subita dal lavoro come valore e diritto, ossia come attività formativa dell'individuo.
Eppure, come fenomeno lavorativo e sociale, il precariato non è nuovo in Italia: era egualmente diffuso nell'ambito scolastico negli anni Settanta, quando decisive risultarono la crescita della scolarizzazione fra il 1960 e il 1975 e la mancanza di programmazione amministrativa nella gestione delle assunzioni nelle scuole (cfr. G. Patroncini, Il lavoro di supplente, Roma 2000).
Come processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, invece, la genealogia del precariato va rintracciata nelle leggi che hanno sancito l'estensione del contratto temporaneo a tutti i settori lavorativi (a cominciare dalle leggi 863 del 1984; 236 del 1994; 299 del 1994; 196 del 1997, quest'ultima meglio nota come “pacchetto Treu”, che introduce il lavoro interinale, l'uso dei contratti a termine, ecc..).
Come rileva Andrea Fumagalli, docente di Economia presso l'Università di Pavia: “Lo scopo dichiarato della Legge Treu è di flessibilizzare i parametri di entrata nel mercato del lavoro, favorendo in tal modo l’occupazione. Di fatto, invece favorisce un costante e crescente processo di sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con lavoro precario. Ed è infatti questo l’obiettivo non dichiarato ma effettivo di questa legge, in seguito alla quale si assiste al boom della contrattazione atipica, soprattutto nella fase di entrata nel mercato del lavoro.
(…) Tale processo si innesta su un tessuto produttivo strutturalmente flessibile caratterizzato da elevato decentramento, fondato su una dimensione d’impresa molto limitata (più della metà della media europea), con scarsa presenza pervasiva delle organizzazioni sindacali. Ne consegue che in Italia, la quota di lavoro autonomo è più che doppia rispetto all’Europa o agli Stati Uniti e che il numero dei lavoratori a cui può essere applicato lo Statuto dei lavoratori è inferiore al 30% dell’intera forza-lavoro. ”
Nel 2001 il Ministero del Lavoro pubblica il Libro bianco sul mercato del lavoro redatto da Maurizio Sacconi e Marco Biagi; un testo che, fra l'altro, misura la dinamica occupazionale sulla base dell'estensione della flessibilità, e che, per molti versi, ispira il quadro normativo sul lavoro del 2003. Quello che vale la pena di notare è che la tesi di fondo del Libro bianco, così come il motore del processo di flessibilizzazione in atto negli ultimi decenni, non mette mai in discussione la qualità del lavoro cosiddetto 'flessibile'.
I contratti a termine non intaccano la dignità del lavoratore, e neppure ne minano la sicurezza sociale (che è diversa da quella militare). Eppure è difficile negare che la precarietà sia il risultato della vantata flessibilità.
A fronte del fallimento di questa manovra, si è assistito poi ad un ulteriore rovesciamento: il discorso sulla precarietà si è spesso confuso con quello sulla disoccupazione, si parla di precari come di disoccupati, senza osservare che i primi rappresentano l'esito della strategia finalizzata a contrastare l'aumentare dei secondi.
La precarizzazione del lavoro si presenta come una conseguenza della manovra politica e sociale che, ufficialmente, mirava ad estendere l'occupazione. Se la cosa ha del paradossale, quel che occorre fare, in primo luogo, è interrogarsi, ragionare su quanto è avvenuto. Fra le possibili questioni da sollevare, una delle più importanti è capire di quale lavoro si parla quando si affronta il problema della 'crescita' e della necessità di garantire la 'ripresa dell'occupazione'.
Spesso, infatti, l'accostamento del precario con il disoccupato non permette di cogliere il degrado cui è andata incontro la sfera del lavoro. Il precario non è inattivo: le storie che sciorinano i giornali e la televisione raccontano di persone che lavorano nei call-center, fanno assistenze saltuarie nelle scuole, sono collaboratori temporanei presso enti pubblici o case editrici, lavorano con contratti a progetto oppure svolgono lavori socialmente utili.
Secondo i dati Istat relativi a Luglio-Settembre 2010 sono 1 milione e 478mila gli “scoraggiati”, che, abbandonata la speranza di trovare lavoro, hanno smesso di cercarlo, e quindi non risultano più né fra i disoccupati, né fra gli occupati. Eppure costoro non stanno di certo con le mani in mano.
Se aumentano le etichette con cui identificare i soggetti dei diritti sociali, non si fa nessun tentativo di portare alla discussione pubblica il significato del cambiamento in atto. Da cosa sono 'scoraggiati' i lavoratori di oggi? Non solo dalla perdita del posto fisso, ma dalla frustrazione che deriva dal tipo di mansioni che devono accettare.
Infatti, non è mutata soltanto la durata dell'occupazione, ma anche la sua forma: il lavoro che si svolge in forma precaria non permette a chi lo pratica di acquisire una padronanza specifica in un dato settore, di sviluppare delle abilità che richiedono continuità, tempo, anche lentezza. Basti pensare all'esercito di supplenti nelle scuole, incapaci di mettere a punto un programma di studio valido nella propria materia perché consapevoli che non avranno più a che fare con gli stessi ragazzi per più di un quadrimestre o, nel migliore dei casi, di un anno.
Al tempo stesso anche la percezione sociale si è adeguata agli standard negativi da cui quotidianamente siano sommersi dai canali di informazione, e il risultato è il prevalere della depressione e dello sconforto, un risentimento che genera isolamento, rabbia e insicurezza. Così nasce l'inattività (non a cercare un'altra occupazione, ma a confidare nel cambiamento della propria situazione): dall'insicurezza verso se stessi e dalla paura di ciò che ci circonda.
Il problema è che il tipo di occupazione imperante non soddisfa i bisogni degli individui, non contribuisce alla realizzazione della loro personalità e, quel che è più grave, impedisce ai soggetti di percepire il lavoro come strumento di coesione sociale e di promozione del benessere materiale e spirituale della società.
È attraverso il lavoro che stabiliamo i rapporti che ci legano agli altri individui, ed è attraverso il lavoro che diamo forma alla realtà in cui viviamo, che ne modifichiamo i contorni e ne decidiamo la direzione di sviluppo. Ma, una volta ridotti a competere gli uni con gli altri per un'occupazione lesiva della stessa dignità della persona, chi rimane a decidere di tutto ciò che, presi dalla paura di non farcela, ci appare come un discorso ozioso e astratto, mentre riguarda la sostanza dei nostri rapporti di vita?
Paolo Barnard accusa l'Unione Europea di aver sottratto ai paesi europei la sovranità legislativa e monetaria con i Trattati di Maastricht e di Lisbona, che hanno paralizzato gli Stati nella loro funzione di spendere a deficit per la piena occupazione e per il pieno Stato sociale. I suoi scritti passano troppo inosservati, eppure puntano il dito su fatti concreti e a tutti evidenti: lo smantellamento del welfare, il sopravvento indiscusso di politiche deflattive, l'irrevocabilità dei tagli “lacrime e sangue” secondo le direttive dell'Unione.
A questo proposito bisognerebbe ricordare, come fa Giovanni Mazzetti, il ruolo che alle politiche sociali attribuiva, invece, John Keynes, il quale nel 1933 scriveva: “Se la nostra povertà fosse dovuta a terremoti, carestie o guerre – se ci mancassero i mezzi materiali e le risorse per produrli, non potremmo sperare di trovare la via per la prosperità altrimenti che con il duro lavoro, l’austerità e l’innovazione tecnologica. Tuttavia le nostre difficoltà sono evidentemente d’altra natura. Scaturiscono da qualche fallimento nelle costruzioni immateriali della mente, dal funzionamento dei motivi che sottostanno alle decisioni e alle azioni volontarie che sono necessarie a mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo”.
Se davvero si vuole riprendere il lavoro attraverso le risorse a disposizione, per esempio attraverso l'ecologia, come ha scritto di recente Guido Viale, allora è necessario, in primo luogo, ripartire dai concetti chiave del discorso socio-economico: portare al centro dell'attenzione la funzione del welfare; della moneta; il vero significato della crescita e del debito pubblico; il valore della contrattazione collettiva; dell'associazionismo e del diritto alla dignità del lavoro.
Bisogna rendersi conto che affrontare la crisi attuale significa rovesciare i termini con cui troppo spesso ci viene presentata. Ma non si tratta di discutere e basta, come se ci si trovasse in uno dei tanti, squallidi salotti televisivi, che hanno contribuito a deformare, banalizzare e distruggere il senso della conversazione civile.
La razionalità del discorso si misura dalla sua capacità di veicolare contenuti oggettivi, che hanno una rispondenza con la realtà perché permettono di leggerla e di interpretarla, e quindi di agire con una coscienza formata. Pensare con la propria testa, oggi, non può che significare spegnere la televisione, porsi domande sulla realtà socio-economica attuale, cercare delle risposte, non smettere mai di formarsi delle idee, appassionarsi ad un progetto che appaghi la propria personalità e trovare il gusto di condividere con chi è vicino saperi, speranze e progetti. Allora sì che ha senso dire: basta pregare.
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