di
Francesco Maria Ermani
06-05-2011
“Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente, la chiave essenziale di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo”. Le riflessioni di Francesco Maria Ermani sul mondo del lavoro prendono come spunto una Lettera Enciclica di Papa Giovanni Paolo II pubblicata nel 1981.
Se qualcuno (chiunque egli sia) scrive qualcosa di buono, veramente buono sul lavoro, generalmente nessuno ne parla. Non ne parlano i politici perché non lo capiscono o fanno finta di non capirlo, non ne parlano gli intellettuali perché è impossibile che altri abbiano idee migliori delle loro, non ne parlano i giornalisti (con poche eccezioni) perché sono servi dei politici ignoranti e
timorosi degli intellettuali.
Gli unici ad avere il coraggio di esporre altrui idee sono i professori nei licei e nelle Università, per questo sono i più maltrattati economicamente e talvolta finiscono per diventare servi dei potenti scordando l’importanza della loro missione educativa.
Oggi non voglio scrivervi di lavoro proprio perché c’è chi lo ha fatto immensamente bene: conosco bene i miei limiti. Ditemi se avete mai sentito o letto quanto segue che, per amor di brevità, sintetizzo, omettendo alcuni passaggi.
“Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente, la chiave essenziale di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo. E se la soluzione o piuttosto, la graduale soluzione, della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di rendere la vita umana più umana, allora appunto la chiave che è il lavoro umano, acquista un’importanza fondamentale e decisiva (…).
Sia la prima industrializzazione che la cosiddetta 'questione operaia' sia i successivi cambiamenti industriali dimostrano eloquentemente che anche nell’epoca del lavoro sempre più meccanizzato il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo (…). Moralmente legittimo può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l’antinomia tra lavoro e capitale cercando di strutturarsi secondo il principio della sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal lavoratore (…).
L’antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo economico. In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile.
L’uomo lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti: l’uomo lavorando, al tempo stesso subentra nel lavoro degli altri”.
Quanto avete letto, io che sono un contadino nella sociologia e nell’economia, lo traduco con un’equazione semplice semplice: economia = uomo X uomo.
Di fatto non c’è nulla da aggiungere, semplicemente dirvi che a volte i miracoli accadono davvero, perché proprio nei tempi in cui le gerarchie ecclesiali tramavano per non pagare l’ICI (riuscendoci) o far finanziare le scuole private e continuavano ad interessarsi (certo meno di oggi) del potere temporale con accordi trasversali con politici indegni, un certo Giovanni Paolo II scriveva la Lettera Enciclica Laborem Exercens (pubblicata il 14 settembre 1981), da cui ho tratto la citazione, uno dei documenti più ignorati degli ultimi cento anni.
Sono passati trent’anni ma poco è cambiato in meglio, abbiamo “esternalizzato” come dicono i grandi manager, i problemi della dignità umana, facendo produrre ai bambini vietnamiti i palloni di calcio e facendo raccogliere agli africani i pomodori ed i cocomeri di giorno, per farli dormire nei cimiteri la notte. Lontano dagli occhi (meglio se del tutto invisibili) lontano dal cuore…
Sono passati trent’anni e abbiamo fatto come il criceto nella ruota: cammina cammina siamo allo stesso punto. Ora è il momento del silenzio.