di
Andrea Degl'Innocenti
14-12-2012
È davvero possibile cambiare modello di sviluppo, modificare la realtà sociale ed economica del nostro paese? Secondo i promotori dell'appello "Cambiare si può" sì, a patto che le realtà che da tempo praticano il cambiamento sul territorio facciano fronte comune. Abbiamo intervistato Domenico Finiguerra, sindaco virtuoso e fra i promotori dell'appello.
Chiamo Domenico Finiguerra attorno alle 10 di mattina, risponde con un lieve affanno nella voce: “Sto spalando la neve davanti a casa, stanotte ha fatto 40 centimetri, potresti richiamarmi fra un'ora?” Finiguerra è da anni rappresentante di un modo diverso di fare politica, legato al territorio, al rispetto dell'ambiente, alla tutela dei beni comuni. È sindaco di un paese di neppure 2mila abitanti in provincia di Milano, Cassinetta di Lugagnano, che nel 2008 è entrato a far parte dell'associazione dei Comuni Virtuosi, risultando vincitore del premio nazionale Comuni Virtuosi nella categoria “gestione del territorio”. Egli è convinto che un cambiamento radicale a partire dal basso sia possibile non solo in realtà piccole e marginali ma anche su scala nazionale. Per questo ha aderito all'appello “Cambiare si può”, che mira a creare un nuovo soggetto politico che riunisca tutte le realtà italiane che si adoperano per un miglioramento concreto della società. Proprio in questi giorni si stanno svolgendo le assemblee territoriali del movimento, in vista della seconda assemblea nazionale del 22 dicembre.
Come nasce il progetto cambiare si può?
Il progetto nasce da un'esigenza avvertita da buona parte della società civile. Sono diversi ormai gli italiani che vogliono trovare una diversa proposta politica che raccolga le esperienze che si sono sommate sul territorio, da Taranto alla val di Susa. Realtà che voi del Cambiamento conoscerete benissimo, che Daniel [Tarozzi, direttore del Cambiamento, ndr]sta conoscendo personalmente con il suo viaggio in camper.
Esistono dei leader del movimento?
Una delle caratteristiche di cambiare si può è quella di voler praticare una leadership diffusa, mettendo in pratica quello che dicono in molti da diversi anni: unirsi! Ci sono molte realtà in Italia che non riescono ad unirsi. Esse formano quello che viene comunemente chiamato quarto polo, ma restano divise e non riescono a fare sintesi; dunque pagano dazio perché non riescono mai ad incidere sulle politiche che riguardano tutto il paese, politiche decise da persone e gruppi che non la pensano allo stesso modo ma che riescono a trovare gli strumenti adatti.
Ma unirsi non è facile...
Purtroppo la sinistra è molto brava a a dividersi ma questa è un'operazione doverosa, non possiamo rassegnarci a consegnare il nostro paese nelle mani del montismo e dei poteri forti. Dobbiamo fare un lavoro di buon senso, senza farsi rinchiudere nel recinto degli estremisti, perché gli estremisti sono quelli che vanno avanti con la privatizzazione dei beni comuni. Piuttosto dobbiamo rivendicare per noi il ruolo di “moderati sovversivi”, che vogliono cambiare l'ordine delle cose e per farlo è necessario che ciascuno si prenda le proprie responsabilità perché non basta un salvatore della patria.
Termini come “cambiamento” o “bene comune” sono molto usati ultimamente, anche a sproposito...
Già, sono ormai un patrimonio lessicale di tutti. Vanno di moda. Chi deve creare dei messaggi pubblicitari lo fa affidandosi a degli esperti che sondano gli umori dell'opinione pubblica, e l'opinione pubblica ormai sente sulla propria carne la necessità di cambiare modello. Poi ovviamente non mi fido quando una banca dice che bisogna cambiare, così come quando lo dicono i poteri forti del nostro paese, perché il loro reale interesse è che tutto rimanga uguale, cambiare tutto perché nulla cambi.
Qual è invece l'idea di cambiamento di “Cambiare si può”?
Cambiare si può ha in testa un altro concetto di cambiamento molto più radicale. Non basta cambiare pelle. Bisogna cambiare completamente registro, cambiare modello di sviluppo. È il punto centrale perché significa incrociare il tema importantissimo dei nuovi posti di lavoro, della crisi occupazionale, della crisi sociale che sta attraversando il nostro paese. Bisogna praticare una riconversione ecologica non soltanto dell'economia ma di tutta la società; e per farlo bisogna cambiare davvero. È per questo che non possono farlo i paladini dello sviluppo del nostro paese: perché significa cambiare la destinazione delle risorse, spostandole dalle grandi opere ad un piano strategico nazionale di piccole opere di cura del patrimonio artistico, del paesaggio. A Taranto ad esempio sono necessarie risorse, magari sottratte alle spese militari per fare un'opera di bonifica che dia a quella comunità nuove prospettive future. Si tratta dunque di redistribuire, cambiare la priorità. Per farlo bisogna avere la schiena dritta e avere ben chiari i propri riferimenti sociali.
E quali sono i vostri riferimenti sociali?
“Cambiare si può”, il quarto polo, ha un riferimento molto chiaro: sono gli ultimi, quelli che non arrivano a fine mese, quelli che si indignano e ormai sono quasi rassegnati e vedono quelle 4 lire che magari gli vengono riconosciute con una Social Card come una manna dal cielo. È un momento difficile e rischioso. I cittadini sono spaventati, hanno paura di cadere in un baratro, vedono i propri figli che non riescono a farsi una famiglia. E la politica non si interroga su questi temi, che sono importantissimi e centrali per la vita e la dignità delle persone. È stato detto ormai più volte che le nuove generazioni hanno perso il diritto a ricevere in eredità un mondo migliore dai propri genitori: questo è colpa della classe politica ma del sistema in generale, del sistema capitalistico. Da qui la connotazione fortemente antiliberista di questa nuova formazione, ma anche la critica al dogma della crescita infinita, al dogma politico dell'uomo solo al comando. Bisogna rimettere al centro le comunità, il diritto delle comunità a decidere del proprio futuro. Adesso individui sempre più soli trovano nel demiurgo, nell'uomo che si presenta in televisione, l'unica possibilità di riscatto, cui affidarsi mani e piedi. È importante che i cittadini si alzino dal divano e cambino il proprio destino, occorre cambiare dal basso.
Quali sono i maggiori ostacoli al cambiamento in Italia?
A mio avviso sono principalmente tre. Il primo è lo strapotere del sistema della comunicazione di massa. L'opinione pubblica in Italia è formata in prevalenza da un sistema informativo che tiene nascosti alcuni dati oggettivi e aspetti fondamentali della conoscenza. Solo per fare un esempio, gli italiani non sanno che vengono persi ogni anno 500 chilometri quadrati di suolo agricolo all'anno, che potrebbero fornire nutrimento a buona parte della popolazione, perché se lo sapessero sono convinto che scenderebbero in piazza. L'Italia è uno dei paesi più fertili del pianeta, credo che sia un delitto cementificare una superficie simile ogni anno. Ma come dicevo, gli italiani questo non lo sanno, perché c'è un sistema di informazione che non vuole far emergere il problema, dato che significherebbe subito dopo cambiare la filiera dell'edilizia, dei centri commerciali, delle grandi speculazioni immobiliari, e sappiamo bene i poteri forti a cui queste filiere fanno riferimento. Un secondo grosso ostacolo è a mio avviso la presenza ingombrante del Vaticano, che blocca la crescita civile e culturale del nostro paese. Ad oggi in Italia è difficile sviluppare tutta una serie di diritti legati alla laicità dello stato, ai diritti civili, importanti per far progredire un paese. Infine un grande impedimento sono i poteri finanziari: chi oggi gode della mercificazione dei beni comuni e vuole continuare sulla strada della mercificazione. Beni comuni che non sono solo l'acqua, l'aria o la terra, ma anche la salute, l'istruzione, ecc. Lo stato ha il dovere di garantire ai propri cittadini un'istruzione dignitosa, una cura in caso di malattia. L'intervento pubblico nella economia è la garanzia che tutti i cittadini abbiano pari diritti.
Ma un'idea comune vuole che la sfera pubblica sia sprecona, corrotta...
L'idea che il pubblico è fonte di cattive gestioni e ruberie è un luogo comune molto utile al sistema. Esistono migliaia di esempi di gestioni virtuose. Certo esistono anche molti pessimi esempi ma ciò non significa che sia la gestione pubblica in sé ad essere sbagliata. La riaffermazione di un forte sistema pubblico dev'essere promossa assieme ad un cambiamento etico della classe amministrativa e dirigente: i politici devono mettersi in testa che non possono più avere privilegi ed essere più uguali degli altri; devono mettersi in coda per fare la spesa così come per andare dal medico o dal dentista.
Lei viene dall'esperienza dei comuni virtuosi, realtà piuttosto piccole, in cui cambiare – immagino – è più facile per via di un tessuto sociale ancora piuttosto integro...
Credo che sia soprattutto un luogo comune l'idea che il cambiamento possa accadere solo nelle piccole realtà. Sicuramente è più facile, ma è possibile ovunque. Noi a Cassinetta di Lugagnano [il paese in provincia di Milano di cui Finiguerra è sindaco] abbiamo messo in pratica una riforma urbanistica che tutela i suoli agricoli ed il paesaggio. Cassinetta di Lugagnano ha 1800 abitanti, ma poco dopo la stessa scelta è stata fatta da molti altri comuni anche più grandi. Persino la provincia di Torino ha approvato un regolamento simile, che prevede che i nuovi volumi debbano essere realizzati in aree già compromesse. Operazioni che da noi possono apparire sovversive in altri paesi sono del tutto normali. In Francia, nella regione dell'Île-de-France, attorno a Parigi, è stato approvato un piano territoriale che prevede la perennizzazione dei suoli agricoli: i suoli agricoli dovranno restare tali per sempre. In italia potremmo fare altrettanto.
Un esempio concreto, come si cambia in una metropoli come Roma?
Si potrebbe partire dalle aree abbandonate. Esistono tantissime aree abbandonate che hanno una vocazione agricola che potrebbero essere affidate a giovani, cittadini cooperative che potrebbero coltivarle, creando così nuovi posti di lavoro. Ciò potrebbe accadere anche a Milano, attorno al Parco agricolo sud, che ha una valenza enorme dal punto di vista agricolo ma è sempre più sottoposto ad attacchi edilizi. Un processo di riappropriazione della terra di questo tipo deve essere svolto dalle amministrazioni locali (sindaci, presidenti di municipio) e dalla cittadinanza attiva. Anche il metodo è importante: dalla condivisione e dalla partecipazione e non dall'illuminato di turno possono arrivare le migliori soluzioni.
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