di
Francesco Bevilacqua
06-05-2011
Il lavoro oggi ci rende schiavi. Da un lato è la struttura sociale che ci costringe all’incessante guadagno per poter sopravvivere in un’economia che ci stritola. Dall’altro lato, siamo noi stessi che ci siamo costruiti una gabbia mentale che ci lega ad esso in un rapporto perverso e innaturale. L'autore ci guida nei meandri più oscuri del lavoro, lasciando intravedere, infine, uno spiraglio di luce.
"Non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano". Con queste parole certamente esplicite, forse radicali, che senza dubbio nella moderna società occidentale farebbero gridare allo scandalo, Aristotele nella 'Politica' esprimeva la sua posizione riguardo a quella che oggi viene considerata l'attività principale dell'esistenza dell'uomo, quella che ormai secondo molti lo investe della dignità e del diritto morale e materiale di stare al mondo.
Chi oggi non lavora, non produce, non impiega fruttuosamente il proprio tempo, viene considerato una palla al piede che la parte 'sana' della società – rappresentata da tutti coloro giorno dopo giorno passano otto, spesso dieci o dodici ore della propria vita davanti a un computer o a un nastro trasportatore – deve ingiustamente mantenere. È questo il paradigma che sin dalla scuola ci viene proposto. Scuola che, ironia della sorte, deve la sua etimologia proprio al termine greco skholè, 'tempo libero'.
Non voglio però proporre un elogio dell'ozio, un panegirico della siesta, per cui ritengo che sia importante sottolineare una differenza di concetto fondamentale riguardo a ciò che oggi viene considerato utile e produttivo. La società occidentale ci ha abituato a misurare tutto il termini di Prodotto Interno Lordo e fatalmente, se chiederete a qualunque persona cosa pensa che voglia dire 'essere produttivi', essa risponderà che significa generare un utile. Dunque, produce e lavora solamente chi 'genera utili' o, come si dice oggi, 'fa girare l'economia' o 'fa crescere il PIL'.
Ecco che automaticamente tutte le occupazioni del fisico, della mente e dello spirito che non siano finalizzate alla capitalizzazione diventano ozio improduttivo: così attività come la ricerca, lo studio, le arti, la musica vengono considerate secondarie, poiché consentono margini di guadagno modesti o addirittura nulli. Mentre sto scrivendo questo articolo io in realtà sto oziando, poiché nessuno mi pagherà per leggerlo.
Allo stesso modo, anche nel mondo professionale si creano delle distinzioni fra mestiere e mestiere in base al suo valore monetario atteso: paradossalmente, nell'era dell'economia virtuale, operatori di borsa che rimangono tutto il giorno piantati davanti a un computer sono molto più produttivi – e quindi degni di rispetto – di un falegname che realizza tavoli e sedie o di un coltivatore che cura il suo campo. Inorridirebbe oggi Aristotele nel constatare questa situazione, lui che già secoli fa distingueva l'attività manuale finalizzata alla produzione di beni utili per vivere dal mercanteggiamento finalizzato all'accumulo di denaro, che chiamava con disprezzo crematistica.
Ecco che in una società in cui il lavoro viene declinato secondo questi criteri, chi diviene improduttivo perde quasi tutta la sua importanza. Gli anziani, che in tempi antichi erano i pilastri della comunità in quanto depositari di saperi e memorie che costituivano l'anima della comunità stessa, oggi vengono considerati solamente corpi da mantenere in vita, da inserire in una struttura burocratica assistenziale come quella del welfare state, che li priva del loro valore umano e spirituale riducendoli a meri destinatari di servizi.
Allo stesso modo vengono visti i bambini e i giovani ancora acerbi per essere inseriti nel mondo professionale. Proprio a questo servono gli istituti tecnici: formare 'soldati del lavoro' che, appena maggiorenni, possano già essere irreggimentati e resi produttivi, dopo essere stati indottrinati per cinque anni con studi che limitano al minimo indispensabile l'insegnamento di materie futili come storia, arte e lingue antiche e predispongono il ragazzo inculcandogli, ancora quattordicenne, la forma mentis del ragioniere o del geometra.
Dice bene il filosofo Alain De Benoist quando fa notare la schiavitù nella quale ci costringe oggi il paradigma produttivistico. Anticamente il lavoro veniva associato a una vocazione, a uno stile di vita e di conseguenza entrava a fare parte in maniera sana e genuina della quotidianità di chi lo svolgeva, che fosse il contadino che passava la sua giornata immerso nei frutteti o il pescatore che partiva all'alba e rimaneva in mare fino a sera. Non si può dire neanche che non esistesse la contrapposizione fra piacere e dovere, poiché il 'dovere' non era neanche concepito.
Oggi la situazione si è rovesciata: la maggior parte delle persone detesta il proprio impiego, vorrebbe passare altrove le otto ore che impegnano la sua giornata lavorativa, ma paradossalmente viene totalmente assorbita dalla professione, viene quasi ipnotizzata da essa e in fondo sembra che, pur odiandola, non ne possa fare a meno. Di certo non può farne a meno dal punto di vista economico, stritolata nella morsa di un'economia canaglia studiata per creare bisogni superflui, per soddisfare i quali il produttore-consumatore si indebita, si spacca la schiena, fa le ore piccole a suon di straordinari. Una perversa spirale studiata alla perfezione per imprigionare lo sventurato uomo moderno.
Oggi si sciopera per rivendicare dei diritti e una politica economica più equa. Perdonatemi ma in questi tempi di banalizzazione del discorso politico mi sembra semplicemente una manovra elettorale per spostare qualche voto e convincere qualche indeciso. Tuttavia, è giusto cogliere l’occasione per una riflessione. Ma lo scopo non deve essere quello di partorire qualche decreto legge più rispettoso dello status dei lavoratori italiani, bensì quello – ben più ambizioso, dal mio punto di vista – di ripensare integralmente il concetto di lavoro che abbiamo oggi.
Da un lato liberiamoci della schiavitù mentale che ci lega al mondo professionale in modo perverso, attraverso una relazione di odio-dipendenza che ci aliena, ci corrode e ci riduce a meri numeri, che si dibattono nella loro disperata condizione senza vedere una reale via d’uscita, regolando la propria vita in funzione del lavoro, "rimandando tutto al ventisette", come cantava De Andrè.
Liberati da questa gabbia mentale, accendiamo la lotta politica, sociale e culturale. Studiamo delle alternative all’opprimente sistema del produci-consuma-crepa, liberiamoci del meccanismo del debito che ci rende schiavi, ricostruiamo una società dove il lavoro corrisponda alla vocazione, dove gli scopi dell’esperienza quotidiana e di vita delle persone siano più alti, più nobili, tesi all’elevazione dello spirito, dei valori, dell’essenza della comunità.
Questa deve essere la vera rivoluzione e finché rimarremo vittime dell’ipnosi e dello stordimento collettivo che ci tengono prigionieri oggi, a prescindere da leggi, manifestazioni e scioperi generali non saremo mai veramente liberi.
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