Gli stessi occhi attraversano due continenti, separati da 8 anni che dividono un decennio appena iniziato da uno al capolinea. Un viaggio passato per due film-documentari di per sé scioccanti, a maggior ragione se visti in sequenza.
Lunedì era il 20 giugno 2009 ed io ero Iraniana. Camminavo assieme a migliaia di persone per le strade di Teheran. Chiedevo solo dove fosse finito il mio voto. Quel voto a cui ho diritto e che mi è stato strappato via, come la vita da quelli che hanno ucciso. Alcuni potranno dire, anzi l'hanno già fatto, che sarei potuta rimanere a casa e non avrei avuto guai. Io rispondo che era un mio diritto essere in via Kargar quel giorno e anche quello dopo ancora. Perche l'Iran è la mia casa, non la mia prigione.
Assistendo alla proiezione di The Green Wave, opera del regista iraniano-tedesco Ali Samadi Ahadi, ripercorro gli avvenimenti delle ultime elezioni presidenziali in Iran. Lo faccio attraverso le parole di blogger e rappresentanti della società civile iraniana (tra cui l'avvocatessa-premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi), tramite le immagini amatoriali girate durante le manifestazioni e gli scontri, ma anche seguendo la storia romanzata di un Iraniano ed un'Iraniana qualsiasi. A fare da filo conduttore a questo toccante documentario-collage è infatti la storia fittizia, seppure ispirata ai contenuti di diversi blog e social network, di questi due studenti. Una storia raccontata tramite la stessa tecnica usata da Marjane Satrapi in Persepolis: un fumetto animato che permette al regista di mostrare quello che nessun filmato è riuscito ad immortalare, e anzi solo poche persone hanno potuto raccontare.
In poco più di un'ora passo quindi dalla speranza pre-elettorale, quell'agitazione positiva che preannuncia un cambiamento, quella sensazione di essere davvero parte del mondo, alla paura più disperata, al terrore, fino ad arrivare ad un disgusto profondo per tanta brutalità, ingiustizia, vigliaccheria.
La violenza indiscriminata, gli omicidi, le intimidazioni, gli arresti e le torture che li hanno seguiti, i rapimenti, le uccisioni, l'inconcepibile crudeltà dell'uomo contro il suo simile. Incredibilmente non c'è spazio per la politica, i due candidati alla Presidenza fanno solo da sfondo alla vicenda umana che è la vera protagonista. Le menzogne che mal celano la brama di potere di chi non vuole perderlo. L'aberrazione della violenza ingiustificata di quei giorni. L'ingestibile situazione per cui chi dovrebbe difenderti ti uccide, massacra, umilia.
Torno a casa dalla proiezione con quello strano peso sullo stomaco, la voglia di gridare accompagna il mio senso d'impotenza. Nella testa i frammenti dell'euforia malmenata per le strade di Teheran, la speranza torturata nelle carceri, il diritto soppresso a colpi di pistola. I miliziani che si scagliano in motocicletta sulla folla, la madre che non sa dove piangere il figlio, gli occhi aperti di Neda mentre crolla a terra. Per ultima, l'immagine di un ragazzo che commuovendosi dice di sognare per l'Iran la stessa libertà che vive quotidianamente nell'Europa che lo ha accolto.
Quell'ultimo fotogramma è ancora nella mia testa mentre senza quasi accorgermene attraverso Rue de Gênes (via Genova). Un brivido mi percorre la schiena.
Un altro giorno, un altro luogo, un altro film. Diversa la storia, diversi i protagonisti, gli slogan e le lingue. Ma dovunque le lacrime hanno lo stesso sapore, il sangue lo stesso colore, l'ingiustizia lo stesso odore.
Giovedì era il 21 luglio 2001 ed io ero Italiana. Riposavo assieme a centinaia di altre persone a Genova. Credevo solo che un mondo migliore fosse possibile. Quel mondo a cui ho diritto di aspirare e la cui visione mi è stata raschiata via a forza di botte, come la dignità da quelli che hanno imprigionato. Alcuni potranno dire, anzi l'hanno già fatto, che sarei potuta rimanere a casa e non avrei avuto guai. Io rispondo che era un mio diritto essere nella scuola Diaz quel giorno. Perché il Mondo è la mia casa, non la mia prigione.
Il secondo film me l'ha ispirato quella via, ma forse era già latente da qualche parte nella mia testa, come una di quelle domande a cui non riesci a trovare risposta. Arrivo a Genova attraversando le scene di Diaz. Non pulire questo sangue e mi sembra quasi di poter sentire l’odore acre di quel sangue.
Il film di Daniele Vicari, incentrato sul massacro delle 93 persone che si trovavano all'interno della scuola Diaz il 21 luglio, ripercorre le vicende precedenti e successive a quella notte di ormai più di dieci anni fa in cui "i diritti dell'uomo furono sospesi", quella notte che “disonorò l’Italia agli occhi del mondo intero”. Anche in questo caso, a fare da filo conduttore è l’umanità che nessuna riunione di grandi potenze può oscurare. In primo piano vittime e carnefici, diritto e impenitenza, braccia alzate e manganelli. Solo in sottofondo intravediamo le rivendicazioni dei no-global, i volti del potere, le dinamiche di un G8 che non può essere dimenticato. Al centro della storia ci sono quelle donne e quegli uomini, i loro sentimenti, ma soprattutto quella violenza cieca, inspiegabile, ingiustificabile. Parlerei di tortura, ma il codice penale italiano non la contempla. Parlo allora dell'abuso di potere di chi sa che non subirà alcuna conseguenza, della vigliaccheria di un criminale nascosto sotto una divisa, di un’ingiustizia lunga dieci anni che ha nascosto e protetto i colpevoli, anziché punirli. Parlo di una verità bloccata da silenzi e menzogne, che ha infine sancito l’esistenza di cittadini di serie A e cittadini di serie B. E quindi di esseri umani “meno umani”. Esseri umani che, evidentemente, non hanno nemmeno diritto a sapere perché, come, quando. Esseri umani a cui nessuno ha chiesto scusa.
Menzogne e insabbiamenti. Brama di potere e violenza immotivata. Odio per il semplice gusto dell’odio. E soprattutto, quella stessa ingestibile situazione per cui chi dovrebbe difenderti ti uccide, massacra, umilia.
5.000 chilometri di distanza. 8 anni di lontananza. E tutto quel sangue che non può essere pulito. Macchie indelebili nella memoria, sui muri, per le strade. Il sangue di Carlo, quello di Neda. I lividi di un’Europa troppo vecchia, le ferite di un’Iran così giovane. L'umanità che soccombe per ragion di Stato, ragion di Dio, ragion di niente. Le menzogne di chi dovrebbe difendere e invece attacca. Le mani alzate di chi resiste, ma non attacca e non difende. I riflettori che si accendono e poi dimenticano.
Alla fine il peso sullo stomaco che avevo si è trasformato in senso di nausea. E non posso fare a meno di pensare che non c'è limite alla crudeltà e alla stupidità umana. Non posso non chiedermi quale differenza ci sia tra i miliziani iraniani e quei poliziotti che irruppero nella scuola Diaz. Non posso non domandarmi come si possano contemporaneamente condannare le violazioni dei diritti umani in Iran, o altrove, ed occultare quelle stesse violazioni in casa propria. Non posso fare a meno di chiedermi chi custodisca i custodi. E infatti, apprendo dai giornali che Giacomo De Gennaro, capo della Polizia dal 2000 al 2007 e dunque anche ai tempi del G-8 di Genova, è stato nominato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Nonostante De Gennaro sia stato assolto per le violenze perpetrate nella scuola Diaz nel 2001, in una vicenda in cui nessuno ha pagato e la verità rimane sepolta sotto un cumulo di sabbia, questa nomina appare quantomeno inopportuna.
Oggi è un giorno qualunque della primavera 2012 ed io sono Italiana, sono Iraniana, non lo so, non lo ricordo, non fa differenza. Non ero a Genova undici anni fa, così come non ero a Teheran nel 2009, eppure sono qui ora e voglio ancora credere che un mondo migliore sia possibile. Quel mondo a cui ho diritto di aspirare e che nessuna crisi può portarmi via. Perché l’Italia, l’Iran, il Mondo intero, sono la mia casa. E non sono abbastanza grandi per rinchiuderci tutti.