"Lavoro sporco", percorsi rom nel comune di Roma

L’Associazione 21 Luglio Onlus, che si occupa della tutela di minori ed è impegnata nella lotta ad ogni forma di discriminazione, ha presentato a Roma il report Lavoro sporco, un rapporto sui percorsi formativi e lavorativi organizzati dal Comune di Roma e rivolti alle comunità rom. La ricerca è stata realizzata da Angela Tullio Cataldo con la collaborazione di Carlo Stasolla, presidente dell’associazione, e l’antropologo Andrea Anzaldi.

Si lavora per vivere, certo, ma c’è molto di più. Il valore sociale del lavoro ha un’importanza fondamentale per l’individuo e tanta di più ne assume per chi vive in condizioni di disagio. Lavorare significa avere la capacità di autodeterminarsi, di coltivare rapporti sociali e alimentare l’emancipazione culturale. Il problema dell’esclusione dal mondo del lavoro dei rom non è una questione che riguarda solo l’Italia ma interessa tutti gli stati della comunità europea tanto che, secondo l’Eurostat, ad aprile del 2011 il tasso di disoccupazione della minoranza più numerosa d’Europa, quella rom appunto, si aggirava intorno al 70%. Leggendo una percentuale così sconfortante il lavoro dell’ Associazione 21 Luglio, e in particolare l’analisi di questa ricerca effettuata sulle politiche di inclusione sociale attraverso il lavoro, può diventare uno strumento fondamentale per gli organi amministrativi competenti del Comune di Roma. Per arrivare a capire quali sono i fattori che promuovono e quali invece paralizzano l’integrazione, la ricerca di Angela Tullio Cataldo ha ragionato sugli effetti di eventuale inclusione sociale successivi alle esperienze di borse lavoro intervistando un campione di rom che aveva partecipato alle attività previste dai finanziamenti. Sono tre i progetti presi in considerazione dalla ricerca e tutti risalgono al periodo 2010-2011. Il primo, il progetto RETIS, è un programma volto all’inclusione nel lavoro di rom e altri soggetti in condizioni di esclusione e consisteva nel coinvolgimento in attività di decoro urbano. Il secondo è chiamato Form on the job e prevedeva un lavoro di smaltimento rifiuti all’interno del campo. L’ultimo - “il progetto pulizie” - svolto sempre all’interno del campo, oltre a presentare il maggior numero di criticità che ne hanno portato al fallimento, ha fatto emergere opacità nei rapporti tra alcuni rappresentanti dell’amministrazione e i portavoce delle comunità rom. La prima anomalia che salta all’occhio è un rapporto inversamente proporzionale tra quantità di soldi investita e riuscita del progetto: il RETIS, il meno dispendioso di tutti, ha avuto un ottimo riscontro, ma lo stesso non si può dire per gli altri due. Il “progetto pulizie”, in particolare, ha investito un milione e centomila euro ma ha tralasciato di seguire il progetto nelle sue fasi lasciando che i diversi portavoce rom gestissero i fondi. In mancanza di controlli e di una progettualità precisa, queste figure poco limpide hanno creato un sistema di assunzione per raccomandazioni o parentele quando invece non hanno addirittura intascato personalmente i soldi. Ma il particolare più preoccupante emerso dalla ricerca è il rapporto tra le amministrazioni e i 'capi' dei diversi campi in fase di campagna elettorale. Parlando sia con i portavoce sia con i rappresentanti istituzionali, traspare infatti che l’amministrazione capitolina, per facilitare lo sgombro di campi rom a Roma, abbia seminato aspettative di consistenti miglioramenti delle condizioni abitative o di possibilità di assunzioni a lungo termine nei sedicenti portavoce in cambio di un appoggio per il trasferimento dei campi nelle aree più periferiche della città. Ecco perché il lavoro è sporco. Oltre alla cattiva gestione dei fondi e alle campagne elettorali xenofobe delle varie amministrazioni capitoline, Angela Tullio Cataldo fa notare che la riuscita del progetto RETIS si deve a una politica di inclusione reale che ha puntato a svolgere il progetto – e questa è considerata la condizione fondamentale per una speranza di buona riuscita in futuro – al di fuori del campo. Dalle testimonianze raccolte tra i rom coinvolti nei progetti esterni al campo si capisce quanto il lavoro è sentito come una possibilità di emancipazione: “Pensavo che posso finalmente uscire da questo campo, che avevo qualche futuro”, “mi sentivo come italiano, non come nomade in un campo” e ancora “io sono straniera e in più vivo in un campo. Quando ti chiedono dove vivi, è finita”. La miopia della politica fin qui perseguita è stata invece quella di cercare di combattere l’ 'emergenza' in un modo che l’ha accentuata, la ghettizzazione, aggravata dal trasferimento in campi sempre più lontani dal resto della società. Perseveranti in questa miopia, ufficializzando il Piano di Emergenza Nomadi nel 2008 che il consiglio di Stato ha giudicato illegittimo nel Novembre 2011, si è deciso di attribuire poteri straordinari al prefetto in riferimento ai rom e ai loro insediamenti e di impiegare i fondi degli investimenti del Piano - circa 34 milioni di euro di cui ancora oggi non si conoscono esattamente l’impiego e il rendiconto – nel controllo e l’identificazione o, ad esempio, iniziando a far fronte all’esigenza abitativa. Come ha fatto notare la giornalista Bianca Stancanelli, le condizioni sociali dei rom devono essere considerate un indicatore significativo delle capacità di gestione e organizzazione di una società. Vista la situazione attuale, di certo il percorso è ancora lungo, ma si può cominciare col tenere in conto i buoni consigli.

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