di
Claudia Bruno
14-10-2011
L'indignazione è un sentimento politico? E quanto ha a che fare con il desiderio di cambiamento? È importante capire cosa è in gioco. C’è una crisi, imponente, l’ultimo prodotto di un sistema governato dall’1 per cento della popolazione mondiale, la stessa percentuale che probabilmente da questa crisi sta cercando di guadagnarci qualcosa.
C’è da chiedersi se l’indignazione non sia diventata parte integrante del sentire politico del nostro paese, perché è già la seconda volta in un anno che in Italia si scende in piazza in difesa di una "dignità violata". Domani ci saranno marce e assemblee pubbliche di quelli che a pochi mesi dalle primavere nordafricane e dal fenomeno spagnolo degli Indignados, e a qualche settimana di distanza dalla nascita dell’Occupy Wall Street americano, si son conquistati l’etichetta di indignati italiani. Quasi una risposta all’ansia mediatica dei giornali che negli ultimi mesi non hanno fatto che titolare: "Perché in Italia non ci sono gli indignati?" e "Dove sono gli indignati italiani?". Del resto lo sappiamo, da noi soprattutto funziona così, si ragiona per categorie e compartimenti stagni. I bamboccioni, i fannulloni, gli invisibili, i precari, i no-global, i black block… Stavolta all’appello gli indignati mancavano proprio, e così, ecco pronta la risposta: gruppi di persone, cittadini attivi, molti già attivi da tempo in un processo di riappropriazione degli spazi e della partecipazione politica, hanno deciso di cedere al richiamo e indossare l’abito richiesto per rendersi titolari della protesta. Alcuni di loro, dopo riunioni e assemblee di piazza hanno firmato e diffuso un appello per le manifestazioni del 15 ottobre – che coinvolgeranno in contemporanea 911 città del pianeta -, altri hanno manifestato la loro adesione alla giornata specificandone i motivi, spesso differenti e variegati rispetto all’appello circolato in rete a firma degli 'indignati italiani', criticato anche perché "l'alternativa" sembrava più uno slogan che un fatto.
Ho sentito più volte gli indignados spagnoli precisare che questa definizione era stata affibbiata loro dai media. La domanda è: quanto ha a che fare l’indignazione con il desiderio di cambiamento? E soprattutto, l’indignazione è un sentimento politico? Il famoso 'italiano medio' ha passato anni a indignarsi davanti ai salotti televisivi borbottando a mezza bocca "governo ladro" senza muoversi dalla poltrona di casa, senza contribuire minimamente a cambiare le cose, continuando a delegare l’azione ad altri. Quello che sta succedendo in questi mesi – anni? – mi sembra qualcosa di diverso da una lamentatio collettiva globale, che include la partecipazione, l’azione, l’assunzione di responsabilità, il desiderio di smetterla con le deleghe. Come possiamo usare la stessa parola per definirlo? Potremmo forse dire indign-azione...
Quando leggo che una ragazza di ventitré anni ha perso quattro denti per una manganellata perché stava manifestando il suo dissenso di fronte alla sede bolognese della Banca d’Italia, quando apprendo che due attiviste vengono arrestate per aver difeso pacificamente la loro valle, non so dire se mi indigno, ma di sicuro è rabbia quella che provo, una rabbia forse però incapace da sola di smuovere lo stato delle cose.
È importante capire cosa è in gioco. C’è una crisi, imponente, l’ultimo prodotto di un sistema governato dall’1 per cento della popolazione mondiale, la stessa percentuale che probabilmente da quella crisi sta cercando di guadagnarci qualcosa. Ricordo bene le parole di Naomi Klein in Shock Economy, sul non lasciarsi ammaliare dal fascino della tabula rasa quando è in corso una crisi, perché una crisi può essere una opportunità, ma bisogna prima capire per chi. Penso ai muri dell'edificio di Barletta crollati addosso alle lavoratrici precarie, poi penso all’Aquila post-terremoto, al modo in cui le istituzioni hanno cercato di trasformare una crisi in un’opportunità, alla risposta resiliente di una vasta rete di cittadine e cittadini che non solo si è opposta resistendo a tale immagine di 'ricostruzione', ma ne ha proposta e attuata un’altra.
Mi chiedo: stiamo facendo qualcosa di simile con la crisi finanziaria, sociale, ecologica? È possibile che ci riusciamo? C’è stato un lento terremoto, ma non si tratta di una 'causa di forza maggiore'. I responsabili – i produttori – della crisi esistono, hanno nomi e cognomi, hanno un volto, e vogliono venderci questo prodotto socializzando il debito e spalmandolo sul restante 99 per cento della popolazione, con politiche di austerity, tagli al sapere, alla sanità, al lavoro, privatizzazione di beni comuni come l’acqua, l’aria, il paesaggio, la vita stessa. Questioni, su cui quel 99 per cento si è espresso già chiaramente – pensiamo al milione e quattrocentomila firme raccolte in Italia per la legge di iniziativa popolare che chiede di ripubblicizzare il servizio idrico, pensiamo ai risultati plebiscitari degli ultimi referendum – senza che questo abbia trovato il giusto luogo nelle manovre economiche di governo, schiacciate dalle raccomandazioni della Banca Centrale Europea e di Bankitalia: "tagliare, privatizzare, rivedere i contratti di lavoro". In questo senso, il prezzo della crisi non è solo di ordine economico ma anche di natura politica: i cittadini rischiano di pagare due volte, in denaro e in democrazia.
Crescere e cresceremo: o la crescita immediata, o la morte. E a qualsiasi condizione, anche a quella di mettere in vendita intere esistenze. Ma la risposta è sempre la stessa: "noi la crisi (vostra) non la paghiamo". Lo hanno gridato gli studenti e le studentesse dell’Onda contro la mercificazione del sapere, lo hanno detto i valsusini che resistono contro la TAV, lo dicono le donne, le femministe che domani saranno in piazza con un ventaglio rosso per manifestare la loro differenza – anche rispetto a certi spot decisamente sessisti, legati alla manifestazione italiana del 15 ottobre – lo stanno urlando gli aquilani e le aquilane, i cittadini e le cittadine di Napoli che grazie al loro lavoro hanno visto varare in giunta due importanti delibere su acqua pubblica e zero rifiuti, i lavoratori della conoscenza e dello spettacolo al Teatro Valle Occupato di Roma; continuano a ribadirlo a loro modo associazioni come PAEA, il movimento Stop al Consumo del Territorio, i Comuni Virtuosi, le Città di Transizione, tutti coloro che si impegnano per una finanza etica.
Mi sono chiesta cosa abbia a che vedere tutto questo con il popolo di Seattle che a fine anni novanta si opponeva all’ideologia della globalizzazione mettendo al centro lo strapotere di istituti finanziari internazionali come Fmi e Bce. Penso a Vandana Shiva, Joseph Stiglitz, Susan George, ad Attac e alla Tobin Tax. Anche stavolta tra i principali destinatari ci sono gli istituti finanziari internazionali, però si parla di un desiderio di cambiamento globale che incida sulla vita di ognuno; c'è chi vede in questo un'evoluzione, una concretezza non ideologica. La differenza, in un certo senso, me la spiega ancora Naomi Klein - autrice di No Logo, tra i manifesti del movimento No Global - che qualche giorno fa ha parlato agli occupanti di Wall Street: "Solo quando si rimane ben piantati, si possono mettere radici - ha detto -. Questo è fondamentale. È un fatto che nell'era dell'informazione ci siano troppi movimenti che sbocciano come fiori meravigliosi, ma che muoiono presto. Questo perché non hanno radici. E non hanno piani a lungo termine per la propria sopravvivenza. E quando arriva la tempesta, vengono spazzati via”.
Voglio pensare all’informazione come a uno strumento per rendere visibile la connessione tra questi "fiori", nello spazio ma anche nel tempo, senza che ci si dimentichi troppo presto di quello che è stato detto con altre parole, di quello che già è accaduto, trasformando ogni tentativo di cambiamento in un fuoco di paglia sconnesso dal resto. Perché dimenticare continuamente può essere più faticoso che ricordare, e questo vale anche per le nostre vite a cui è stata sottratta continuità di spazi, tempi e relazioni.
Voglio pensare al 15 ottobre come a una giornata di raccordo tra voci diverse ma tra loro interconnesse, una giornata capace di contenerle e metterle in relazione rendendo esplicito il legame che sussiste tra vite, saperi, esistenze, lavori, consumi, scelte, individui e collettività, diversi pensieri.
Nessuna bandiera, nessun partito, nessuna violenza, questi gli intenti dichiarati prima. Poi, lo sappiamo, tra popoli violacei e violenti cavalieri neri, il fantasma della delegittimazione attende dietro l’angolo.
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