di
Andrea Degl'Innocenti
19-07-2011
Cosa può insegnarci la vicenda islandese? Quali le differenze e quali i punti in comune con ciò che potrebbe accadere in Italia? Il percorso di democrazia partecipata e di riappropriazione dei diritti iniziato in Islanda è realmente trasferibile altrove? Cerchiamo di rispondere a queste ed altre domande, per chiarire i dubbi e le perplessità dei lettori sulla 'rivoluzione silenziosa'.
Giorni fa vi abbiamo raccontato in un articolo di come il popolo d'Islanda abbia intrapreso un percorso democratico di riappropriazione dei propri diritti, a scapito della finanza globale. Torniamo a scrivere dell'argomento - visto il grande interesse suscitato - per chiarire alcune delle questioni più controverse della vicenda islandese, così come sono emerse dai commenti dei lettori. Procederemo con ordine analizzando punto per punto ogni aspetto, riproponendo le domande e le curiosità così come ci sono state poste e cercando di fornire una lettura il più possibile realistica di quanto accaduto in Islanda e delle eventuali connessioni con la situazione dell'Italia e del resto d'Europa.
Chi pagherà il debito? Una delle domande più ricorrenti è proprio questa. Già, chi paga? Come spesso accade, le domande più semplici sono anche le più complesse a cui rispondere. Per adesso la risposta è: nessuno. Lo stato islandese si è trovato nella morsa di due diverse forze, l'una che spingeva dall'alto, l'altra dal basso. Esso doveva rispondere da un lato ai propri cittadini, che si rifiutavano di pagare un debito contratto da enti privati (le banche) nei confronti di altri privati (i cittadini inglesi ed olandesi); dall'altro ad accordi internazionali e potentati finanziari che imponevano il pagamento del debito contratto, con qualsiasi mezzo e a costo di ridurre alla fame la popolazione islandese. Alla fine è stato deciso di dare la parola ai cittadini, affermando un principio sancito da molte costituzioni ma la cui applicazione appare quasi un atto rivoluzionario: che la volontà del popolo sovrano è superiore a qualsiasi altro accordo internazionale.
Ci rimetteranno i cittadini inglesi ed olandesi? Sì, in un certo senso. Se il debito non verrà pagato a rimetterci saranno, in parte, anche i contribuenti d'Olanda e Gran Bretagna. I due stati creditori hanno già provveduto a rimborsare i propri cittadini titolari del conto IceSave, che sta alla base della controversia, dunque si sono fatti carico di tale debito. Significa che quei quattro miliardi circa di credito che i due paesi avevano verso l'Islanda non ci sono più, dunque non verranno più considerati nel bilancio statale. Ci saranno delle ripercussioni sui cittadini? Possibile, ma saranno comunque impercettibili. Il peso specifico che questa cifra assume sull'economia britannica o olandese non è paragonabile a quello che avrebbe assunto sull'Islanda. Ciò che conta, però, è che per una volta – forse la prima – si è smentito l'assioma del debito, uno dei mali peggiori che attanaglia le società contemporanee.
Certo, la questione non è affatto semplice, come vedremo più avanti. Inoltre va ricordato che la faccenda del debito islandese non è ancora del tutto chiusa. Nonostante i cittadini islandesi si siano pronunciati per ben due volte sulla questione, è ancora aperta la controversia a livello internazionale, con Inghilterra ed Olanda che si sono tutt'altro che rassegnate a veder sfumare i propri investimenti.
Gli islandesi si erano arricchiti con i soldi delle banche? “Finché le cose andavano bene erano tutti contenti, poi quando si sono messe male nessuno vuole pagare”, è un altro dei commenti ricorrenti. Certo, lo sviluppo sfrenato porta ricchezza e benessere, si sa. Ma è bene notare che: 1. chi si arricchisce veramente è un numero molto limitato di persone e nel caso Islandese le ricchezze accumulate dai banchieri non sono paragonabili con quelle 'di riflesso' degli altri cittadini; 2. chi è responsabile dello sviluppo sfrenato è anche consapevole delle fragili basi su cui esso posa, mentre i cittadini sono spesso indotti a credere che tale sviluppo sia solido e potenzialmente infinito; 3. la critica che rivolgiamo agli islandesi potremmo rivolgerla a noi stessi, visto che anche noi abbiamo goduto di un modello sociale non deciso da noi, ed ora ci prepariamo a pagare il conto (ed immagino non ci verrà fatta una colpa se cercheremo di pagarlo il meno salato possibile).
Il punto qui è un altro. Stiamo uscendo – noi, gran parte del mondo – in modo piuttosto brusco e doloroso da un periodo di crescita sfrenata e di benessere diffuso. Andiamo certamente verso una fase di maggiori ristrettezze, inutile negarlo. La via d'uscita indicata come inevitabile dai potentati finanziari internazionali passa per privatizzazioni, perdita di diritti, rinuncia alla sovranità popolare. L'Islanda indica un'altra via percorribile.
In Italia potrebbe accadere quanto accaduto in Islanda? No, ma ciò non vuol dire che i cittadini italiani – ed europei – non possano imparare niente dalla faccenda islandese, anzi. La dinamica degli eventi è sicuramente dipesa da alcune caratteristiche peculiari del paese nordico. Pochi abitanti (circa 320mila) sparsi su un territorio vasto e ricco di risorse, un'economia con un peso specifico relativamente basso all'interno delle dinamiche europee e mondiali, una situazione - anche geografica – di relativi isolamento e indipendenza e – soprattutto – un debito che ammontava a neppure quattro miliardi di euro. L'Italia ha un debito pubblico di quasi 2mila miliardi, per l'esattezza 1897,472 miliardi (dato relativo al mese di maggio 2011). Se i cittadini italiani decidessero di non pagare quel debito farebbero crollare all'istante l'intera economia europea, e buona parte di quella mondiale.
La questione del debito è cosa decisamente complessa. Per ogni stato col cappio al collo, strozzato dal debito, c'è un paese creditore che senza quel credito si troverebbe nella medesima situazione. È un equilibrio delicato, un castello di carte nel quale basta il crollo di un elemento per scatenare un terrificante effetto a catena. Dunque gli stati si tengono in vita l'un l'altro, alimentando all'infinito i rispettivi debiti, in un meccanismo perverso e senza alcuna prospettiva di uscita.
Cosa può insegnarci la faccenda islandese? In realtà molte cose, alcune delle quali le abbiamo già dette ma le ripetiamo. In primis che la via d'uscita dalla crisi che viene imposta dall'alto non è inevitabile. Da sempre le crisi economiche, necessarie al sistema di sviluppo capitalista – e ancor più a quello consumista – per potersi autoalimentare, hanno avuto come conseguenza una maggiore concentrazione delle ricchezze e del potere nelle mani di pochi, e la perdita dei diritti e dei beni da parte delle popolazioni. Oggi, forse per la prima volta nella storia, i cittadini hanno modo di essere informati e consapevoli di quello che gli sta accadendo attorno. Possono consapevolmente non accettare quello che gli viene imposto dall'alto, decidere di ribellarsi e di non lasciarsi portar via ciò che appartiene loro. La crisi si può trasformare in un enorme incubatore di democrazia.
Siamo ad un bivio, all'inizio di un percorso. L'Islanda ci insegna che il popolo sovrano è in grado di decidere quale strada imboccare. La strada europea, quella degli aiuti da parte di Bce e Fmi e della svendita a privati dell'intero settore pubblico, della rinuncia ai beni comuni e ai diritti; oppure la strada islandese, della riappropriazione dei diritti e del potere decisionale, della democrazia diretta e partecipata che detta l'agenda a quella rappresentativa.
Certo le differenze con lo stato nordico restano molte, ma nella vicenda islandese non dobbiamo pretendere di trovare una soluzione, piuttosto l'indicazione di un percorso. È vero, forse non potremo decidere di annullare il nostro debito estero. Ma potremo usarlo a nostro vantaggio. Questo potrebbe infatti rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio per chi lo usa come strumento neocoloniale per appropriarsi di 'pezzi' di sovranità altrui e rubare i diritti dei popoli. Il debito italiano è una pistola alla tempia dell'Unione europea.
Certo, sarà difficile iniziare un percorso di democrazia partecipata come quello islandese: loro sono 320mila, noi 60 milioni. Ma ci sono segnali confortanti - primo fra tutti quello degli ultimi referendum - che dicono che sulle questioni importanti non è poi così difficile fare fronte comune. L'Islanda ha aperto uno spiraglio, sta a noi creare un varco, e quindi un sentiero realmente percorribile.
Leggi anche
La rivincita dell'Islanda: non c'è benessere senza partecipazione
In Islanda lo Stato paga i mutui. E continuano le indagini sul crack
PER APPROFONDIRE LEGGI IL LIBRO "ISLANDA CHIAMA ITALIA - STORIA DEL PAESE CHE RIFIUTO' IL DEBITO", EDIZIONI LUDICA
Commenti