di
Francesco Bevilacqua
26-01-2011
Siamo abituati a considerare i conflitti globali come un problema grave ma lontano da noi. Forse non immaginiamo, però, che spesso le armi con cui queste guerre si combattono sono finanziate dagli istituti di credito a cui affidiamo i nostri risparmi. Per prenderne coscienza cominciamo dalla lista nera delle banche italiane coinvolte nel mercato degli armamenti.
Il conflitto israelo-palestinese, le lotte tribali in Africa centrale, la guerra perpetua in Ossezia e in Cecenia, la ribellione delle Tigri Tamil in Sri Lanka e del popolo Karen in Birmania e ancora il Chiapas, Haiti, corno d’Africa, l’isola di Timor e tantissimi altri. Queste sono solo alcune delle guerre in essere all’alba del 2011. Sono molte decine e sarebbe impossibile analizzare una per una le ragioni e le modalità dei conflitti e comunque non è di questo che vogliamo parlare.
Apparentemente si tratta di situazioni che tutti noi italiani, noi occidentali, sentiamo lontane. Magari siamo un po’ più in apprensione per ciò che succede nei Balcani o in Tunisia, per via della vicinanza territoriale; oppure seguiamo con maggiore interesse le vicende delle repubbliche ex sovietiche, del Kosovo e dell’Albania o del Darfur e della Nigeria, perché sappiamo che molti degli esuli e dei rifugiati che scapperanno da quei posti si dirigeranno verso la nostra penisola. In generale però quello delle guerre è un problema che seguiamo con un certo distacco, che pensiamo non ci riguardi, che sentiamo lontano. In realtà è più vicino di quanto possiamo immaginare.
In che termini? È molto semplice: i veicoli militari, le armi, le munizioni con cui si armano i protagonisti di questi conflitti provengono in buona parte proprio dall’Italia. E c’è di più: per alimentare un giro di denaro che nel 2009, nell’Unione Europea, ha superato i 40 miliardi di euro, di cui 6,7 nel nostro paese, c’è bisogno di un sistema di intermediazione finanziaria ben strutturato e di notevoli dimensioni. Chi credete che costituisca questo sistema? Proprio le banche commerciali a cui bene o male tutti quanti ci appoggiamo per gestire i nostri risparmi, da Unicredit all’Unione Banche Italiane, dalla Popolare di Milano a BNP Paribas. Ma entriamo nel dettaglio.
Il finanziamento di operazioni relative all’esportazione di armamenti italiani è regolato dalla legge 185 del luglio 1990, successivamente aggiornata nel 2003. La relazione annuale in cui il governo stila il bilancio del mercato delle armi si apre, nella sua edizione del 2008, con alcune precisazioni volte a giustificare e sostenere la legittimità dell’impegno industriale e commerciale in questo particolare segmento. Il diritto di ogni paese a dotarsi di strumenti di difesa adeguati e di tutelare il proprio ordine interno e la necessità di salvaguardare "un patrimonio tecnologico, produttivo e occupazionale non trascurabile per l’economia del paese" rappresentano i presupposti per legittimare il commercio di armamenti.
La relazione prosegue con un discorso che si destreggia abilmente fra richiami al famoso articolo 11 della nostra costituzione – l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali… – e la necessità di mantenere buoni rapporti con i paesi con cui ci relazioniamo (anche quelli in guerra), fra la messa al bando di determinati tipi di armi – chimiche, biologiche, nucleari o idonee alla manipolazione dell’uomo e della biosfera – e i già citati aspetti di politica estera, di difesa, di sicurezza di carattere tecnologico e industriale. Per farla breve, effettuate le dovute valutazioni sull’argomento in generale e sui casi specifici, il governo annualmente ha il compito di rilasciare autorizzazioni alle ditte produttrici e alle banche che intendono finanziare le operazioni commerciali.
Esaminando la relazione inerente all’anno 2009, la redazione del sito Vizi Capitali ha stilato un elenco che analizza l’attività di tutte le banche commerciali italiane in questo settore. Ogni gruppo bancario ha una propria linea per quanto riguarda questo particolare e delicato mercato. Generalmente quasi tutti pongono quantomeno dei paletti che riguardano per esempio la vendita a paesi che si sono resi responsabili di violazioni di diritti umani, che partecipano al conflitto in qualità di aggressori, che sono sottoposti a embarghi o sanzioni oppure che abbiano una spesa militare sproporzionata rispetto alle possibilità economiche della nazione. Bisogna dire che anche la legislazione italiana e internazionale (Carta delle Nazioni unite) prevede questi criteri discriminanti, quindi la loro adozione da parte delle banche appare come un minimo sindacale a cui non potrebbero sottrarsi neanche volendo.
Alcuni istituti tuttavia sono andati oltre: Banca Etica per esempio non ha mai finanziato attività collegate al traffico di armi, mentre il gruppo Montepaschi ha attuato la stessa politica a partire dal 2000. La banca di Credito Cooperativo risulta assente dal settore a eccezione di Banca di Bientina e Credicoop di Cernusco sul Naviglio, che anche nell’ultimo anno ha investito più di 5 milioni. Il Credito Emiliano non partecipa a operazioni 'armate', però ha finanziato con quasi 900.000 euro il consorzio che realizzerà la nuova base americana di Dal Molin, a Vicenza.
Bisogna però rilevare che quasi tutte queste banche, a eccezione della Banca Etica, investono in titoli di aziende come Daimler, Siemens, Raytheon o Lokheed Martin le quali, pur non producendo direttamente armi, forniscono componenti per ordigni quali cluster bombs, mine antiuomo e armi nucleari. Inoltre sono coinvolte nella partecipazione a Finmeccanica, attraverso delle quote o grazie a una specifica linea di credito di 2,4 miliardi di euro di cui ha beneficiato la holding il cui maggior azionista è lo Stato italiano attraverso il Ministero dell’Economia. Per chi non lo sapesse, nel 2009 il gruppo Finmeccanica si è posizionato all’ottavo posto a livello mondiale fra i produttori di beni militari.
Per quanto riguarda le banche coinvolte a livello maggiore, il triste primato è detenuto dal gruppo UBI Banca, che nel 2009 ha investito complessivamente un miliardo e 246 milioni di euro, scalzando la BNL, che è ora al secondo posto; la Banca del Lavoro però ha una condotta ancor meno trasparente, offuscata dal caso degli elicotteri militari Mangusta, venduti nel 2008 alla Turchia per conto dell’Augusta, l’azienda produttrice, nonostante il codice etico della stessa banca preveda operazioni di questo tipo con i soli paesi aderenti a Unione Europea o NATO.
Da diversi anni Unicredit sta modificando la propria posizione nei confronti del commercio di armamenti, muovendosi timidamente verso un regime più restrittivo; ciononostante, nel 2009 sono 146 i milioni di euro investiti, a cui va sommata la grave macchia di essere stata iscritta nella lista stilata dalla ONG Netwerk Vlaanderen che prende in esame 121 istituti di credito accusati di aver finanziato operazioni di palese violazione dei diritti umani, prima fra tutte la feroce campagna repressiva in atto in Birmania. Altre banche che ottengono regolarmente autorizzazioni a operare nel settore degli armamenti sono la Popolare di Milano, il gruppo Intesa San Paolo e Cariparma.
Il sito Vizi Capitali suggerisce alcune contromisure da adottare nel caso in cui scoprissimo di appoggiarci a una banca che finanzia il commercio di armi. Prima di tutto, promuovere un’adeguata pubblicizzazione della 'lista nera' che abbiamo esaminato e sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti del problema. E poi, perché non parlare direttamente con la banca, partendo dal direttore della filiale che frequentiamo, per esporgli la questione, confrontarsi e provare a cambiare la posizione dell’istituto stesso nei confronti del problema?
Abbiamo visto quanto il dramma dei conflitti globali sia vicino a noi, ben più di quanto siamo abituati a pensare. Se però c’è un lato positivo in tutto ciò, è che un impegno da parte nostra a cambiare le cose può partire dalla quotidianità, dal piccolo e dal locale. Certamente il compito è arduo, ma senza muovere il primo passo è impossibile cambiare la situazione.
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