Si sente spesso parlare di permacultura, ma in pochi sanno veramente che cosa sia. Ecco perché abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli alla scoperta di questa fondamentale visione del mondo, che è anche alla base del sistema delle città in transizione.
Penso che, come me, molti lettori, condividano l’amore per la natura in tutte le sue manifestazioni e desiderino fare del proprio meglio per preservarla non solo per se stessi, ma anche per le generazioni future.
Si tratta di un’esigenza etica che guida molte aziende agricole italiane a non fare uso di sostanze chimiche di sintesi e a produrre seguendo le regole dell’agricoltura biologica.
D’altra parte possiamo renderci conto che anche con i nostri consumi incidiamo sull’ambiente in modo più o meno irreparabile, per esempio accumulando rifiuti non biodegradabili.
Troppo spesso però i movimenti ambientalisti e animalisti ci hanno proposto solo modelli negativi, indicando cioè soltanto cose da non fare e limitazioni che finiscono per ottenere un effetto frustrante e deprimente in chi, desideroso di fare qualcosa, si imbatte in mille vincoli.
Mi è sembrato per questo particolarmente positivo l’incontro con la permacultura, come risposta a questo “cortocircuito” fra il desiderio di tutelare l’ambiente e la legittima esigenza individuale di trarre dall’ambiente sostentamento per sé e per la propria famiglia, nonché reddito dalle attività agricole.
Questo metodo offre, infatti, una maniera moderna e creativa per recuperare il sapere antico delle nostre origini contadine aumentando la redditività del nostro lavoro e contemporaneamente salvaguardando il pezzetto di natura su cui interveniamo, anche grazie a un buon uso della tecnologia e dell’immaginazione.
Esistono dei principi da seguire che sono in gran parte frutto del buon senso insito già in ciascuno di noi, e quindi soltanto da riscoprire.
Vi racconterò pertanto quello che ho imparato dall’insegnamento di Richard Wade, docente della Scuola di Pratiche Sostenibili di San Giuliano Milanese, e fondatore dell’ Istituto di “Permacultura Monsant” di Arbolì in Catalogna (Spagna).
Ma andiamo con ordine, partendo dalla parola “permacultura”, che significa “cultura permanente”.
Questo termine è un’evoluzione del precedente “permacoltura”, cioè (agri)coltura permanente, scelto per indicare un approccio diverso dell’uomo alla natura, non più quello predatorio, tipico delle monocolture annuali, ma collaborativo in modo permanente e duraturo. Un metodo che privilegia la piantumazione di alberi ed erbacee perenni, ricreando un equilibrio complesso che, col passare degli anni, ha sempre meno bisogno di interventi da parte dell’uomo, ed offre sempre più frutti.
È così che da un certo modo di fare agricoltura discende in realtà una “rivoluzione” culturale che coinvolge tutti gli aspetti della vita umana: l’utilizzo delle risorse energetiche, il tipo di consumi da favorire, il modo di costruire e di abitare, lo scambio e l’interazione con gli altri esseri umani, etc. Da qui dunque l’evoluzione del termine “permacoltura” in “permacultura”.
Ora, per vedere in sintesi com’è strutturato questo metodo, non c’è niente di meglio che partire dai 3 principi di base che ne costituiscono l’etica:
1- aver cura del pianeta;
2- aver cura delle persone;
3- limitare il nostro consumo alle nostre necessità;
Bill Mollison, il fondatore della permacultura, aveva scoperto in tanti anni di osservazioni sulle foreste, che insieme alle zone umide, non esistono altri sistemi naturali più produttivi e che qualsiasi intervento umano comporta una perdita di biodiversità e un impoverimento delle risorse. Ha iniziato così a sperimentare tutti i metodi possibili per assecondare la natura in modo da riportarla a distribuire con abbondanza i suoi frutti.
Per praticare la permacultura non occorre certo arrivare a conseguenze estreme come ritornare a vivere nei boschi cibandosi di bacche e coprendosi con pelli di animali selvatici, ma, piuttosto, considerare le conseguenze sull’ambiente di ogni nostra azione e favorire la ricchezza vegetativa naturale in ogni angolo del nostro pianeta, questo sì!
Infatti, la regola cardine della permacultura è: prendersi la responsabilità per se stessi. Se non puoi fare questo, non puoi fare permacultura.
Ed è questa una piccola-grande rivoluzione perché sposta la nostra attenzione dai massimi sistemi – dalle multinazionali che inquinano, dai governi che non fanno le leggi giuste, dai comuni che non fanno la raccolta differenziata dei rifiuti, etc. – per centrare il problema su noi stessi.
Da qui discende un altro principio della permacultura: agisci con e non contro. Questo principio si riferisce senz’altro alla coltivazione, ma anche ai rapporti interpersonali.
I grossi problemi del mondo - il surriscaldamento del pianeta, l’effetto serra, il disboscamento dissennato, la desertificazione, la penuria d’acqua, l’inquinamento ... - esistono, ma finché ci muoveremo soltanto “contro” qualcosa, consumeremo molta energia con scarsi risultati e vivremo troppo spesso con un senso di frustrazione addosso. Occupandoci continuamente di quello che non va, passeremo buona parte del nostro tempo in stretto contatto con i lati peggiori dell’uomo - avidità, prepotenza, mercificazione, violenza, etc. - che suscitano in noi rabbia, indignazione o depressione. Immagazzineremo, cioè, ogni giorno tante esperienze frustranti che metteranno a dura prova le nostre qualità migliori (la tolleranza, la fiducia, l’amore...), indebolendo la nostra pulsione vitale.
La denuncia e la contestazione sono necessarie, ma le proposte alternative molto di più. E come puoi pretendere che gli altri cambino se tu, in prima persona, non cominci?
Se partiamo dalla nostra vita quotidiana, dal nostro piccolo orticello, applicando su noi stessi i nostri principi, ecco che le cose prenderanno una piega diversa.
Se da solo non posso certo cambiare il mondo, posso però cambiare il mio giardino, il mio orto, il mio balcone, il mio rapporto con il vicino di casa, con i miei clienti, con i miei figli, con l’edicolante, con il barbiere... e le mie azioni positive saranno un nutrimento gratificante per me e per tutti coloro con cui ho a che fare. È questa in fondo l’applicazione concreta del principio: avere cura delle persone.
Si può creare così, a partire dai singoli, una rete di contatti in grado di contagiare positivamente sempre più persone. In tal modo, inevitabilmente, più individui si sensibilizzeranno a questi principi etici, meno seguito e meno spazio avranno i governi corrotti, le multinazionali del business, gli inquinatori etc.
Inoltre, collaborando con altre persone su progetti concreti, è possibile realizzare alternative efficienti e positive che possono poi essere replicate altrove allargandone sempre di più gli effetti.
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