di
Francesco Bevilacqua
30-10-2013
Colpita dal “mal d’Africa” e dalla voglia di cambiare vita, ha abbandonato il suo lavoro per un grande brand di abbigliamento e si è trasferita in Tanzania per fare la volontaria in un orfanotrofio. Elisa Grazioli ci racconta la sua esperienza.
“Se si ha assaggiato almeno un po’ di Africa non si può fare a meno di volerci ritornare e respirare la sua vita. È una malattia senza guarigione, difficile da spiegare a chi non l’ha mai sperimentata. La terra è rossa, l’erba è verde, la luce è abbagliante, il cielo di giorno è di un azzurro intenso, essendo più vicino alla terra di quanto non sia ad altre latitudini, e la sera regala uno spettacolo luminoso di stelle che, senza l’inquinamento atmosferico delle nostre città, illuminano la notte. La Via Lattea appare subito con tutta la sua luce anche all’osservatore meno attento. Forse sono proprio questi colori messi insieme che mi hanno riportato qui in Tanzania e che mi accompagnano ogni giorno in questa esperienza di volontariato”.
Elisa descrive così, di getto e con lo sguardo rivolto in alto tipico di chi sta sognando a occhi aperti, la sua esperienza africana. Fino a un anno fa aveva un contratto a tempo indeterminato con un importante marchio di abbigliamento, per cui faceva la stilista. Una vita tranquilla, la stabilità economica, il futuro garantito… ma le mancava qualcosa. Ciò di cui aveva bisogno lo ha trovato, in modo quasi casuale, in Tanzania.
Quando hai pensato di partire per l’Africa, c’è stato un aspetto in particolare – un racconto, un momento di intima riflessione, un’immagine… – che ti ha aiutato a fare questa scelta?
Sono arrivata qui non per un motivo specifico, ma perché in casa mia si è sempre parlato di questo continente “lontano” e la voglia è cresciuta piano piano attraverso i racconti dei miei genitori, che sono stati i primi a venire qui e a descrivere queste persone speciali e questi posti così diversi, che hanno suscitato in me grande curiosità. Nel 2011 sono partita per la prima volta per la Tanzania grazie all’associazione Albero di Cirene di Bologna; lì ho conosciuto un gruppo di ragazze con la mia stessa voglia di scoperta e con loro ho condiviso questa bellissima avventura di volontariato che rimarrà sempre nel mio cuore.
Abbiamo raggiunto un piccolo villaggio chiamato Nyakipambo, dove abbiamo tinteggiato e decorato un asilo che l’associazione Gruppo Missionario Alto Garda e Ledro aveva appena finito di costruire. Lì abbiamo dipinto l’asilo, ma ci siamo anche inserite nella vita del villaggio e dei suoi abitanti e ci siamo confrontati con loro. Sono tornata nell’estate del 2012 e in quel viaggio la mia curiosità è cresciuta ancora di più e ho capito che le tre settimane di ferie estive non erano sufficienti per entrare davvero in sintonia con questi luoghi. In quell’occasione ho avuto la possibilità di conoscere l’orfanotrofio di Tosamaganga: lì, circondata da tantissimi bambini che mi chiamavano per nome chiedendo un’attenzione o una carezza, sono stata avvolta dal desiderio di trascorrere più tempo con loro.
Quali sono state le reazioni delle persone che ti erano vicine quando hai deciso di partire?
Una volta tornata in Italia, ho condiviso questo mio desiderio con la mia famiglia e con le persone vicine a me: la loro reazione è stata positiva, ma come tutti coloro che ci vogliono bene, mi hanno messo in guardia, riferendosi per esempio al periodo negativo che l’Italia sta attraversando e al fatto che oggigiorno lasciare un lavoro sicuro non è una scelta facile né conveniente. Certo, erano dubbi che anch’io mi ero posta, ma se una cosa la si vuole veramente secondo me la si deve rincorrere e non si deve avere paura di intraprendere una nuova avventura. Poi, se sarà destino, ritornerò sulla strada di prima; siamo sempre in tempo a tornare indietro. Viceversa, questa nuova esperienza mi potrebbe aprire orizzonti nuovi che, senza viverla, non potrei mai scoprire. Ma il bello delle nuove avventure è proprio la sensazione di incertezza e di sfida che le caratterizza.
Quali sono le differenze culturali e spirituali fra la nostra società – in cui abbonda la ricchezza economica ma scarseggiano benessere e felicità – e quella tanzaniana e africana?
Qui ogni cosa è intensa, dal profumo dell’olio di girasole all’abbraccio di un bambino, al sole che picchia sulla testa ricordandoti che in Africa la vita non è facile. Specialmente per noi “wageni”, ovvero stranieri, l’esistenza quotidiana è molto impegnativa, a partire dal caldo, dal sole che ti segue tutto il giorno e rende tutto più lento. L’acqua è diversa, così come il cibo, e il nostro corpo è catapultato in un ambiente sconosciuto e ha bisogno di tempo per abituarsi al cambiamento. Così come esso metabolizza questi mutamenti un po’ alla volta, anche nel nostro voler aiutare il prossimo dobbiamo avanzare con prudenza.
Una frase di Giuseppe Alamanno, un missionario che ha operato in Africa, esprime perfettamente il concetto: “Non dobbiamo semplicemente fare del bene: dobbiamo farlo con diligenza e nel miglior modo possibile. La pazienza va seminata dappertutto”. “Pazienza” è una parola che mi è tornata spesso in mente in questo periodo, perché oltre alla diversità del clima e dell’ambiente, bisogna fare i conti anche con la diversità culturale. Tante cose ci accomunano e tante altre ci dividono. I tanzaniani sono un popolo gentile e accogliente e lo si vede subito dai saluti; per loro il saluto è importantissimo, non sono mai avari con il tempo da dedicare ai convenevoli, si informano sulla salute delle persone che incontrano e della loro famiglia, anche se non le conoscono.
La famiglia per loro occupa un ruolo centrale nella vita ed essi attribuiscono una grande importanza ai matrimoni e agli altri riti sociali. Anche nella nostra società la famiglia è importante, ma oggigiorno è diventato normale crearla sempre più tardi, perché ci preoccupiamo prima del lavoro, di trovare una sistemazione economica buona che possa dare stabilità alla futura vita familiare. Difatti, quando ci si confronta su questo argomento, viene sempre fuori quella buffa domanda: “Come mai a trent’anni una donna italiana non ha ancora figli?”. Qui, a quell’età, sono già al secondo! Qui non danno peso ai soldi e alla stabilità economica; hanno quella piccola dose di “irresponsabilità” che a noi ci manca e che a loro forse permette di vivere la vita nel presente più che nel futuro... Ma non voglio esprimere giudizi di merito, perché non credo esistano un modo giusto e uno sbagliato.
C’è qualche aspetto in particolare che ti ha colpita?
Il loro legame con la Terra, sulla quale camminano a piedi nudi. Ma anche il rapporto col cibo, che spesso mangiano senza posate e che per loro significa semplicemente nutrimento e non è legato al “culto” della gastronomia come da noi. In occidente è diverso: da fonte di sostentamento, il cibo si è evoluto; la varietà da noi è apprezzata, mentre per loro spesso non c’è questa possibilità, ma anche quando ce l’hanno non osano molto, poiché sono conservatori e abitudinari. Dico “conservatori” perché spesso qui si trovano “bianchi” che vengono a operare come volontari, che portano il loro aiuto, la loro conoscenza e parlano con loro.
Confrontandoci, anche se si opera in settori diversi, emerge sempre un comune denominatore: la diffidenza nei confronti dei nostri consigli. Non dicono mai di no perché sono un popolo molto gentile, ma ce lo fanno capire... Ho riflettuto spesso su questa cosa e ho concluso che forse è dovuta alla colonizzazione: il loro è sempre stato un popolo soggiogato, che ha sempre ricevuto ordini, e ora vogliono dimostrare di essere in grado di farcela anche da soli. E lo possono fare, perché non è grazie ai bianchi che vanno avanti, anzi, ma questo atteggiamento al tempo stesso li frena. Comunque siamo noi gli ospiti della loro terra e cerchiamo di dare una mano nel modo in cui a loro è più comodo.
Ci puoi parlare del progetto che stai seguendo?
Vi sto scrivendo dalla Tanzania-Iringa-Tosamaganga, dall’orfanotrofio delle Suore Teresine, Kituo Cha Watoto Yatima. Questa casa è la mia casa e le persone che ci lavorano e i bambini adesso sono la mia famiglia. Questa famiglia è composta da 66 bambini che variano dal mese ai sei anni di età, 6 suore, una ventina di dade e altri 3 volontari tedeschi. Ognuno ha il suo ruolo e ci si aiuta a vicenda per rendere tutto divertente ma nello stesso tempo efficace e formativo. I bambini sono divisi in quattro gruppi: lattanti, piccoli, medi e grandi. Il gruppo che seguo è quello dei piccoli, che vanno dai nove mesi ai tre anni e questi 16 bimbetti ci riempiono la giornata!
E qual è la tua giornata tipo?
È una domanda che mi sento porre spesso! Ora provo a descriverla... I giorni qui in Africa iniziano presto la mattina e con i bimbi è normale. Verso le 7.30, dopo aver fatto colazione, mi reco nella stanza dei “miei” bimbi, che quando mi scorgono da lontano iniziano a chiamare “Elisa, Elisa, Dada Elisa!”. Queste vocine che urlano il mio nome sono una cosa bellissima e i loro occhi che mi cercano per un’attenzione, una coccola o semplicemente uno sguardo mi scaldano il cuore e mi riempiono la giornata! Si inizia riempiendo i biberon e i bicchierini di latte, si cambiano, si puliscono e poi tutti in cortile a giocare!
C’è chi è alle prese con le prime parole – mamma, dada e anche Elisa è diventata una di esse –; non potete immaginare la gioia nel sentire una vocina pronunciare il mio nome, in quel momento il mio cuore batte a mille! Altri sono alla scoperta del mondo visto a quattro zampe e quindi iniziano a gattonare dappertutto alla ricerca dei loro amici. Poi ci sono quelli che piano piano cercano di prendere il via alzandosi e provando a camminare da soli. Ogni giorno si fanno dei progressi, dal rimanere in piedi, al camminare con l’aiuto una mano... e un po’ alla volta vedi che lasciano la presa e cercano di avanzare da soli!
Ogni giornata ha il suo evento: Joseph ha fatto i primi passi, Enjoy ha detto la sua prima parola, Lecho ha imparato a battere le mani… queste sono soddisfazioni che riempiono il cuore di gioia. Poi ci sono i più grandicelli del gruppo che corrono e ti saltano addosso alla ricerca di un abbraccio o ti chiamano per farsi guardare mentre scendono dallo scivolo o semplicemente per invitarti a giocare insieme a loro con dei tappi di bottiglia. Giochi semplici ma capaci di infondere grande felicità.
A metà mattinata arriva l’ora del semolino: si recuperano i 16 bambini sparsi per il cortile e li si mette a sedere uno accanto all’altro su un kitenge – un tessuto africano – con il proprio bavaglino e in gruppo si inizia a imboccarli. Alla fine del pasto, i bimbi vanno a nanna e io mi reco in stanza a studiare il kiswahili; piano piano, con l’aiuto di uno dei volontari tedeschi, sto imparando questa lingua, importantissima sia con i bambini che con le dade con cui lavoro tutti i giorni.
Dopo l’ora del pisolino e il mio pranzo, ritorno dai miei folletti birbanti, do loro del latte e li riporto a giocare in cortile. Verso le quattro, un altro po’ di semolino, cambio pannolino e tutti a nanna fino alle otto, dopo di che si prende il latte e ci si riaddormenta nuovamente per raggiungere Morfeo nel cuore della notte.
C’è un bambino di cui ci vuoi parlare in particolare?
In questo gruppo c’è anche Neema, una bimba che ha bisogno di assistenza e non è autosufficiente a causa di un problema cerebrale che compromette la funzionalità degli arti, che devono essere sollecitati e movimentati. L’altro problema da cui è affetta è la contrazione della massa muscolare nella zona di bacino e gambe e per questo ha bisogno di essere rilassata con esercizi ripetuti giornalmente. Con lei, due volte alla settimana, andiamo in città, a Iringa, per delle sedute di fisioterapia in un centro specifico per bambini e quotidianamente svolgiamo gli esercizi che ci danno da fare a casa. Quest’anno Neema ha compiuto tre anni.
Il nostro primo incontro risale all’estate 2012: era sdraiata a pancia all’aria su una coperta e osservava sorridendo i suoi amici passarle vicino… abbiamo incrociato i nostri sguardi, mi ha sorriso chiedendomi con gli occhi di andare a giocare con lei e così ho fatto. Da quel momento in poi abbiamo pensato che sarebbe stato bello che Neema potesse avere la possibilità di provare a camminare e a giocare con gli altri bambini, quindi abbiamo deciso di adottarla a distanza e aiutarla nel suo percorso. Una volta tornata in Italia, insieme al mio amico Matteo, ho parlato ai nostri conoscenti di Neema e della nostra idea di aiutarla e grazie anche alla collaborazione delle suore siamo riusciti a trovare un centro specialistico per bambini con problemi come i suoi. Ora io e lei siamo inseparabili!
Per raccontare la mia esperienza ho aperto il blog unatwigaintanzania.blogspot.it, dove cerco di trasmettere le emozioni che sto vivendo. Non è come vivere questa esperienza in prima persona, ma spero tanto di arrivare ai vostri cuori e farli battere almeno una volta come sta facendo il mio in questo momento. Non so cosa mi aspetta quando tornerò in Italia, ma sarò sicuramente felice di quello che avrò fatto in Africa e una parte di me rimarrà per sempre in questa Terra.
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