di
Francesco Bevilacqua
06-09-2013
L’industria alimentare ha ormai soppiantato la piccola agricoltura di sussistenza, schiacciata dal peso di un sistema economico e legislativo non più a misura d’uomo. Massimo Angelini, autore del libro “Minima Ruralia”, analizza il problema e propone le soluzioni.
“Se vuoi cercare le verdure, la frutta e i grani di una volta […], lascia da parte internet, dimentica il telefono, non ti curare di cosa se ne dice o se ne legge. Se li vuoi cercare, bisogna che ti muovi a piedi, paese per paese, cascina per cascina; e non ti scoraggiare quando ti dicono che sono scomparsi: qualche volta sono solo 'invisibili' allo sguardo e alla memoria. Ci vuole pazienza, gusto per l’ascolto e rispetto perché chi è anziano, se ancora li conserva, accetti di mostrarteli o di mostrarne la semenza”.
È questo il consiglio con cui Massimo Angelini – autore, docente, studioso e “coltivatore d’idee nell’orto”, come si definisce lui stesso – accoglie i lettori nelle prime pagine di “Minima Ruralia” (Pentagora Edizioni, aprile 2013), una guida alla riscoperta delle tradizioni contadine italiane e, in particolare, della Liguria, terra natia dell’autore. Scopo del viaggio, recuperare quell’antico legame fra uomo e natura, quella dimensione oggi cancellata dall’industria del cibo, che frappone macchine e sostanze chimiche fra il contadino e il suo campo, ponendosi in una logica di mero sfruttamento delle risorse offerte dalla terra.
Da sempre l’agricoltura è un punto d’incontro fra natura e cultura, fra i cicli biologici spontanei e l’intervento migliorativo umano. È possibile individuare il 'punto di rottura' che ha portato dall’attività contadina tradizionale all’agroindustria?
Non so se si possa individuare un preciso punto di rottura, ma osservo che questa rottura è avvenuta e ora pare insanabile. Quello che oggi appare evidente è che l’agricoltura contadina e quella industriale non sono aspetti differenti di una medesima attività, distinguibili su parametri quantitativi – minore o maggiore estensione, produzione, marcato e capitale – ma attività del tutto differenti e, per ciò che riguarda gli effetti sociali ed ecologici, opposte.
L’agricoltura contadina mira a conservare la fertilità della terra, la quantità di acqua disponibile, la diversità di colture e, all’interno di ciascuna coltura, di varietà, laddove, invece, l’agricoltura industriale agisce come un’attività estrattiva, mineraria: erode la fertilità, consuma le risorse di acqua, riduce la diversità in termini di colture e varietà. E potremmo ribaltare questa contrapposizione su molti altri piani: sociale e culturale, prima di tutto.
Forse un fattore di rottura, non l’unico, può essere riconosciuto nel diverso modo di porsi dell’uomo di fronte alla natura e alla storia: prima organico, simbolico; oggi frammentario e astratto, con l’uomo separato dal cielo come dalla terra e autocentrato sul proprio sé in un vortice di scissione e isolamento. In questo caso, se questa ipotesi meritasse un approfondimento, dovremmo ricercare la rottura nelle radici della modernità, tra XII e XIII secolo.
Può citare alcuni interventi pratici riguardanti la sfera normativa – regolamenti da abolire, leggi di tutela da attuare ecc. – che andrebbero effettuati in maniera urgente per salvaguardare il mondo rurale e coloro che vi appartengono?
Il primo passo è riconoscere che esiste un’agricoltura contadina, non riducibile a quella imprenditoriale e, ancora di più, industriale. Non dimentichiamo che la parola “contadino” esiste per il lessico corrente, non per quello giuridico dove non compare in alcun provvedimento. Il secondo passo è lasciare che chi lavora per il prevalente obiettivo dell’autosussistenza e della vendita diretta e senza intermediari dell’eccedenza possa farlo senza vessazioni burocratiche e amministrative. Oggi spesso i contadini sono costretti a produrre più carta che alimenti, pagano controlli del tutto astratti per rischi del tutto ipotetici. Raccontava il dott. Ferigo, responsabile di una ASL del Friuli, che non si conosce un solo caso di avvelenamento da marmellate domestiche avariateù; per questa e altre cento ragioni aveva scritto un libro-denuncia intitolato “Il certificato come sevizia”.
Oltre alla qualifica di IAP, esiste anche quella di coltivatore diretto, più vicina all’idea di contadino ma pur sempre gravata da un’eccessiva burocrazia. Ritiene che possa essere una buona base per semplificare la legge o va ripensato tutto il quadro normativo?
Bisogna integrare il quadro normativo col riconoscimento di regole e spazi di libertà per chi esercita un’agricoltura familiare, di piccola scala economica, fondata più sul lavoro che sul denaro, dove si coltiva la terra e non i contributi, fondata sul lavoro personale di sé e della propria famiglia dove non si è dipendenti e non si hanno dipendenti, sulla prevalente autosussistenza e sulla trasformazione e vendita diretta senza intermediari. Per chi fa questo, per chi non svolge un’attività industriale, servono norme, tutele e sgravi specifici. Non servono soldi, serve che chi ha voglia di lavorare e coltivare la propria vita senza speculare sul denaro, sul lavoro degli altri e sul cibo possa farlo in pace.
Pensa che possa esistere un equilibrio fra la mercificazione (e quindi banalizzazione) del 'locale' e la giusta diffusione di questo concetto a livello culturale e pratico?
Nel mercato di prossimità, dove può esistere un controllo diretto e la rete delle informazioni confidenziali (il “pettegolezzo”!) funziona, “locale” vuole dire qualcosa. È nel mercato generale, nelle economie di scala e nella grande distribuzione che perde significato ed è solo uno slogan pubblicitario, frusto e ingannevole.
Allo stesso modo, è possibile concepire un quadro normativo che non strangoli i contadini con cavilli burocratici ma che anche riesca a tutelarli dalla concorrenza dell’industria alimentare di bassa fascia?
Sì, è possibile. Ma quale governo ha l’autorità morale per uscire dalla sudditanza di norme sull’agricoltura scritte a Bruxelles, in buona sostanza, dai quattro paesi (Francia, Germania, Paesi Bassi e Danimarca) che dettano le politiche agricole e dove l’agricoltura è pressoché solo di livello e qualità industriale?
Leggendo le sue considerazioni mi è parso di cogliere la necessità, da parte della nostra società, di sgravarsi di un’imponente mole di convenzioni, norme e consuetudini – non solo scritte ma anche astratte, di ordine sociale – e 'decrescere' anche nel modo in cui ci approcciamo alla vita quotidiana, recuperando genuinità e semplicità. È d’accordo?
Torno all’ultima parte della prima risposta e osservo che la conversione del nostro sistema economico e sociale può solo essere la conseguenza di una profonda conversione interiore, nella quale ci si riaccorda con la terra, con il cielo, con le generazioni che ci hanno preceduto e quelle che sono per venire.
Fuori da questa conversione profonda e dolorosa come una rinascita, fuori dalla riconciliazione con noi stessi, tre passi più in là del silenzio, c’è solo spazio per agire comportamenti di moda, per il nuovo perbenismo di chi ha capito qual è 'la cosa giusta' e se ne fa un vanto da ostentare, un nuovo tic compulsivo di chi, per estrazione sociale o culturale, non può fare a meno di sentirsi protagonista nel teatro del mondo. Genuinità e semplicità non sono abiti buoni da indossare per una nuova austerità.
Il suo libro è giustamente incentrato sulla realtà rurale della Liguria. Conosce lavori simili che parlano di altre zone d’Italia? Ritiene possibile e utile, qualora non ce ne siano, provare a realizzarli?
Tolti pochi capitoli dove è il richiamo al caso di una varietà locale recuperata in Liguria e alcuni dove si fa menzione del lunario agricolo ligure, il Bugiardino, per il resto credo che la maggior parte delle considerazioni non siano circoscrivibili a un’area particolare. Lo stesso caso della varietà locale che ho citato è presentato nel libro come un esempio riproducibile, declinato con i dovuti adeguamenti locali, su altre regioni.
Oggi si conoscono ottime pubblicazioni dove si riflette sul mondo contadino e sull’agricoltura locale, sempre utili benché spesso orientate a un approccio puramente sociologico o socio-economico.
In diversi passaggi si percepisce da parte sua un netto rifiuto delle derive quasi ideologiche di localismo e biologico. A cosa è dovuta questa posizione? Ritiene che sia comunque importante il ricorso a metodi naturali?
Negli ultimi quindici anni l’attenzione verso l’agricoltura e, in particolare, verso il mondo contadino qualche volta è degenerata in una visione astratta da arte di chi, orfano delle ideologie fiorite e sfiorite negli anni precedenti, sulla terra ha visto un nuovo 'fronte' di antagonismo o uno spazio di libertà refrattario alle istituzioni o un luogo privilegiato dove riconnettere i legami con la vita recisi nel tempo della virtualità. Sono espressioni di un’ideologia sostanzialmente urbana portata avanti da chi non conosce la terra e spesso non ha l’umiltà e la pazienza di avvicinarcisi sottovoce, per imparare. In questi trent’anni ho conosciuto un numero rilevante di persone che volevano 'tornare' sulla terra portando i nuovi credi di un’agricoltura di volta in volta naturale, sinergica, olistica, permanente senza neppure avere ancora sperimentato un orto.
Non c’è niente di male, sono espressioni di fragilità e buona volontà, sono esperimenti con la vita e con se stessi. Ma questi atteggiamenti diventano sgradevoli forme di superbia quando chi non conosce l’agricoltura se non sui libri e attraverso le proprie buone intenzioni pretende di catechizzare – come tante volte ho visto – chi l’esercita per viverci, spiegandogli che per essere un 'vero' contadino deve anche essere biologico, consapevole, solidale, magari vegetariano…
Commenti