di
Andrea Boretti
08-12-2011
Quando l'economia si è trasformata da regolatrice del benessere comune a tiranno e causa riconosciuta di una infelicità globale? A dare una risposta a queste domande prova il film L'Economia della Felicità di Steve Gorelick e dell'economista/regista Helena Norberg-Hodge che nel corso di oltre trent'anni di viaggi in Ladakh ha visto cambiare radicalmente società ed economia di questo 'piccolo Tibet'.
Se le parole hanno un senso e un valore, quelle che si leggono sulle pagine dei giornali in questi giorni o che si ascoltano in TV negli ultimi mesi vanno analizzate e ponderate.
I termini più usati sono spread, borse, mercati, lacrime e sangue, sacrifici, di tanto in tanto si sente parlare di default. Tutti termini 'economici', tutti termini che fotografano in qualche modo una situazione attuale italiana tutt'altro che rosea.
La domanda è: come ci siamo arrivati? La percezione generale è che un po' alla volta il piano sul quale ci troviamo si è inclinato sempre di più e noi, Italia, abbiamo cominciato a rotolare. Davanti a noi rotola veloce la Grecia - non importa quale manovra o manovrina il nuovo governo del vice-presidente BCE Papademos metta in campo - e dietro di noi c'è tutta l'Europa, Francia in testa. Ma pure l'America - che per ora si salva stampando e stampando banconote dal nulla - e l'Asia, i cui tassi di crescita sono ogni anno più bassi, come era inevitabile.
Com'è che il sistema capitalista liberista che si è imposto a livello globale e che prometteva democraticamente il benessere per tutti viene oggi accompagnato da termini come quelli che abbiamo sopra elencato? Quand'è che l'economia si è trasformata da regolatrice del benessere comune a tiranno e causa riconosciuta del malessere e di una infelicità globale?
A dare una risposta a queste domande prova il film L'Economia della Felicità di Steve Gorelick e dell'economista/regista Helena Norberg-Hodge che nel corso di oltre trent'anni di viaggi in Ladakh ha visto cambiare radicalmente società ed economia di questo 'piccolo Tibet' e ha potuto toccare con mano come la globalizzazione e il capitalismo siano stati la causa di un impoverimento non solo economico ma anche spirituale.
C'era una volta un Ladakh in cui non esisteva la disoccupazione, un Ladakh dove tutti avevano quanto necessario per vivere in armonia, un Ladakh dove le differenze sociali erano ridotte al minimo e dove nessuno moriva di fame e nessuno si definiva, con i canoni di allora, 'povero': era un Ladakh felice.
Con il passare degli anni, il capitalismo nella sua forma peggiore (il consumismo) si è infiltrato tra i ladakhi e non solo ne ha sconvolto l'economia ampliando a dismisura la forbice tra chi ha tanto e chi ha poco, ma ne ha cambiato a poco a poco la natura, convincendo questo popolo una volta orgoglioso delle proprie montagne e della propria vita, che era un popolo povero. Assieme a questa, che forse è la tragedia più grande, in Ladakh sono arrivati i camion, le automobili, e quindi il petrolio e l'inquinamento.
In sintesi il capitalismo e la globalizzazione hanno trasformato un paese in cui nessuno era ricco ma nessuno era povero, ma soprattutto un paese in cui la gente era felice, in un paese con pochi ricchi, tanti poveri e tra loro, in entrambe le categorie, tanti depressi e miserabili. Hodge partendo da questo piccolo paese racconta quindi otto scomode verità sulla globalizzazione che portano alla inevitabile conclusione che “La Globalizzazione è costruita su una spiegazione falsa”.
Questa spiegazione è la falsa idea che il mondo e l'uomo si sviluppino e si evolvano in un movimento di crescita continua e lineare.
Ce lo ripetono tutti i giorni: la soluzione alla crisi è anzitutto la crescita, bisogna stimolarla. Ma cosa significa crescita? Crescita è un valore positivo dell'indice PIL, il Prodotto Interno Lordo, che si basa sul concetto che ogni anno si produca e si consumi più dell'anno precedente. Se questo avviene, sei più o meno in grado di ripagare i tuoi debiti (di come si siano formati parleremo un'altra volta) se non avviene rischi il default, il fallimento. Ma ciò non basta, la fede nella crescita è tale da non prendere mai in considerazione una semplice e inevitabile verità: viviamo in un mondo finito e non possiamo pensare di crescere (consumare) all'infinito.
Nonostante questo, non c'è politico che non auspichi una crescita per il proprio paese, non c'è economista che non faccia la stessa cosa, e non parliamo dei mercati, che tanto sembrano inspiegabilmente contare in questo periodo... Non importa quale sia il motivo della crescita, l'importante è che ci sia.
In Cina da anni 'crescono' a cifra doppia ogni anno, ma a quale prezzo? Le campagne vengono abbandonate, migliaia di giovani si chiudono nelle fabbriche delle multinazionali occidentali che hanno de-localizzato li perché lì costa meno, molto meno, produrre qualunque cosa.
Poi succede che dove si producono i tanto acclamati iPhone ogni anno decine di operai si suicidano ridotti alla disperazione da ritmi di produzione forsennati, per lavori alienanti e, ovviamente, mal retribuiti. È questo il benessere che promettevano loro quando li hanno convinti, volenti o nolenti che il loro lavoro precedente non aveva futuro?
Perché un contadino sudamericano deve abbandonare la sua terra comprata da un enorme latifondista ed essere costretto a trasferirsi a vivere in una baracca al limitare di una città vivendo di stenti ed espedienti? Le favelas sono storia dell'ultimo secolo, qualcosa si è rotto, un equilibrio è stato incrinato e ora queste sono le conseguenze.
Già nel 1968 Bobby Kennedy, durante la campagna elettorale a seguito della quale sarebbe stato ucciso, criticò pesantemente il valore del PIL come indicatore del benessere di una nazione, nel 1972 l'allora Re del Buthan improntò il suo governo sulla "Felicità Nazionale Complessiva". È invece di questi ultimi anni la decisione del Premier Inglese David Cameron di affiancare al PIL un 'indice della felicità' o General Wellbeing Index – Gwb.
Insomma, è già da tempo evidente, e oggi ancora di più, come l'economia non stia assolvendo al suo compito e come sia quindi necessario un cambio di prospettiva che riporti al centro la persona e la sua felicità. Nel fare questo bisognerà tenere conto non solo delle variabili economiche ma, soprattutto, di quelle spirituali. Se non si accetterà al più presto questa verità e si cambierà paradigma il piano rischia di inclinarsi sempre di più facendoci accelerare al punto tale da non poter più frenare. A quel punto andremo a sbattere e dopo enormi sofferenze iniziali saremo quindi costretti a ricominciare… localmente.
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