di
Matteo Marini
06-11-2013
Si parla tanto di calo dei consumi, di italiani che tirano la cinghia a causa della crisi economica e della tassazione eccessiva. In questo quadro ha senso continuare a sperare nel commercio a grande distribuzione come quello dei centri commerciali?
Si parla tanto di calo dei consumi, di italiani che tirano la cinghia a causa della crisi economica e della tassazione eccessiva. In questo quadro ha senso continuare a sperare nel commercio a grande distribuzione come quello dei centri commerciali?
La pagina Facebook “Bio? Si può”, attraverso la penna di Barbara Ciucarilli, tenta di analizzare il tema da uno dei possibili punti di vista: “ Ieri mi è capitato di ascoltare i discorsi di una cassiera mentre ero in fila al supermercato. Una donna che doveva conciliare la famiglia (due figli e un marito) con i turni di lavoro che le assegnano. "passi per tutti i sabati e le domeniche che sto qui senza vedere i miei figli, passi il fatto che io e mio marito ci alterniamo con i turni e ci incontriamo solo a letto, ma che mi chiedano anche di rinunciare alle poche festività che abbiamo per venire a lavorare, mi sembra troppo" ”.
“Quelle festività – continua Barbara - alle quali la signora dovrebbe rinunciare sono quelle in cui lei e uno stuolo di persone come lei lavorano per dare a noi privilegiati un momento di svago dalla noia mortale che ci avvolge. Tranne qualche acquisto importante (come può essere un farmaco salvavita o un pacco di riso se non abbiamo nulla da mangiare), il nostro maleducato vizio di frequentare i centri commerciali o gli ipermercati per sport o per distrarci dal tedio domenicale ha delle conseguenze sul prossimo: così, mentre noi dopo aver vagolato in quei posti ce ne torniamo a casa con la nostra famiglia, quei poveracci restano lì a sognare la propria famiglia”.
Da notare poi, come ci racconta Giovanni Cappellotto (esperto di e-commerce), dalle pagine del suo blog: “se alla fine degli anni ‘80 i centri commerciali rappresentavano una proposta mediamente di qualità medio e di diffusione dei brand, oggi il panorama dell’offerta si è livellato al basso, senza differenziazione di offerta, assortimenti poco estesi e poco profondi”.
Senza contare che, con il crescere di centri commerciali, il commercio di vicinanza, di prossimità sta sempre più scomparendo. Tale sparizione sarebbe giustificata se l’economia di questi colossi della vendita fosse più che fiorente ma - come sottolinea la Confederazione italiana agricoltori, riprendendo i dati Istat diffusi lo scorso 24 ottobre – l’aumento dell’Iva scattato recentemente, si è inserito in un contesto in cui gli italiani sono costretti a fare i conti con il crollo del potere d’acquisto (-1,7 per cento nei primi sei mesi del 2013) e con la disoccupazione a livelli da record. I consumi, neanche a dirlo, con uno scenario del genere si sono attestati su numeri di trent’anni fa.
Dall’inizio della crisi, ci ricordano gran parte degli studi economici, sono diminuiti quasi del 40 per cento viaggi e vacanze, ma soprattutto le famiglie hanno dovuto ridurre il budget a disposizione per la spesa alimentare di oltre 12 miliardi di euro, al netto della dinamica dei prezzi.
Alla luce di questo scenario desolante, in molti si chiedono se non sia giusto riconsiderare il tipo di economia, di commercio in cui siamo piombati, fatto di fast food e grandi ipermercati e sempre di meno di alimentari sotto casa e baristi che ti danno del tu. Ci si potrebbe almeno pensare.
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