di
Dario Lo Scalzo
18-10-2010
Storie invisibili racconta il cammino di vita del redentorista Padre Giuseppe Russo, prete di strada e militante nella Palermo anni '70. Un'intervista in due puntate.
Rompiamo l’individualismo, che ci siamo creati. Ritorniamo allo spirito della polis per creare senso di comunione, che apporta pace e benessere. Le contrapposizioni ci portano all’isolamento per ritornare nello stato di povertà.
Storie invisibili racconta il cammino di vita del redentorista Padre Giuseppe Russo. Abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di intrattenerci a lungo con lui per rivivere una parte della sua storia e contemporaneamente per avvalerci delle sue esperienze per un'osservazione a più ampio respiro sulla società italiana degli ultimi decenni.
Si tratta di un interessante viaggio che, attraverso i racconti, le narrazioni, i fatti e gli eventi silenziosi di un uomo dal cuore libero, esalta il valore della moralità. Frammenti di saggezza che vengono alla luce dalla semplicità e dal silenzio. 'Piccoli gesti fatti con grande amore' partoriti dal senso di giustizia ed uguaglianza e dall’agire per il benessere collettivo come fondamenta essenziali per costruire una coscienza morale.
Sul palcoscenico del mondo l’azione silenziosa e libera di pochi individui può trasformasi in condivisione, estendersi alla comunità per permettere di perseguire la via di una solidarietà costruttiva. Una formula prodigiosa, forse unica via di speranza, da trasmettere alle generazioni future, per fuoriuscire dalla chiusura individualista, dall’affarismo dilagante, ma soprattutto dalla profonda crisi d’amore di questa umanità sempre più 'disumana'.
Padre Russo, se dovesse dare una descrizione di se ai lettori de Il Cambiamento che non la conoscono cosa direbbe in poche parole? Chi è Padre Russo?
Sono del 1935. Sono nato a Licata (AG). Ho settantacinque anni, ma li porto molto bene con uno spirito giovanile, continuo a sognare e a progettare. Sono sacerdote da cinquanta anni. Da piccolo ho sognato di fare il missionario itinerante e sono entrato nella Congregazione del SS. Redentore, fondata da S. Alfonso Maria de Liguori, napoletano ed ex avvocato di grido. I miei superiori mi hanno destinato a svolgere l’attività di insegnante prima nel seminario minore della Provincia religiosa e poi nelle scuole pubbliche, dove ho avuto una lunga esperienza di vicepreside; nello stesso tempo ho lavorato prima al CEP e poi a Uditore, a Palermo. L’apostolato, come parroco, l’ho svolto per circa trentaquattro anni
Credo di essere un vero cristiano. Tutte le mie azioni sono e sono fatte alla luce di Dio. Non nascondo nulla. Quello che penso lo dico per intero. Considero e tratto tutti ugualmente, perché figli di Dio e miei fratelli, se vi è differenza tra noi uomini è per i ruoli che svolgiamo. Escludo il servilismo e lotto per avere quello che mi spetta per diritto e non per grazia.
Per mia natura non sono per la guerra e per la giustizia riesco ad affrontare qualunque pericolo.
Durante i suoi lunghi anni di 'militanza', ha incontrato tante difficoltà e ha avuto modo di conoscere delle realtà fuori dal comune, le va di raccontarcele?
Giovane sacerdote, con poca esperienza, ma schierato sempre da parte del vero e del giusto, ho avuto contrasti con un mio superiore per l’amministrazione economica della comunità nonché per la conduzione della vita comunitaria e della vita parrocchiale. Non ho avuto peli sulla lingua, e ho parlato e attaccato con molta calma, pur mantenendo rispetto, chiedendo trasparenza, ritorno all’osservanza delle Regole e spirito di servizio. Questo mio modo di essere, creduto da me retto, fu giudicato dai miei superiori un po’ devastante e fu motivo dell’allontanamento dalla parrocchia di Uditore, dove ero vicario cooperatore, così fui mandato al quartiere CEP di Palermo, in qualità di parroco. Avevo trentadue anni.
Il trasferimento avvenne in tali circostanze. In un giorno libero dal mio insegnamento al Liceo Scientifico 'Galileo Galilei' di Palermo, si riunì il Consiglio straordinario. Il Superiore Provinciale mi mandò a chiamare e fui accolto con molta cordialità e fatto accomodare. Trovandomi dinnanzi a cinque miei confratelli sperimentati e molto più grandi di me, ebbi una qualche apprensione, ma seppi controllarmi. Padre Provinciale prese la parola dicendo che il Cardinal Carpino, non trovando un sacerdote diocesano che andasse al CEP, aveva richiesto uno di noi. Poi rivolto a me, disse: "Vuoi andare tu?". Risposi: "Se mi mandate voi, io vado". "Allora se ti mandiamo, tu vai?". Risposi: "Sì". Da allora iniziò una fantastica avventura.
Mi pare di intuire che nell'arco della sua vita quella nel quartiere CEP (Centro Edilizia Popolare), può considerarsi una tra le esperienze più toccanti, più forti e quelle in cui ha sentito davvero di essere cresciuto sia come uomo che come padre? Perché?
Sicuramente inizialmente al CEP, mi trovai smarrito. Trovai una situazione totalmente fuori delle mie conoscenze. Avevo vissuto da ragazzo nella periferia del quartiere Marina di Licata, quella più nobile, avevo fatto i miei studi superiori per nove anni in Campania, avevo iniziato il mio apostolato a Castroreale (ME), avevo lavorato di domenica per alcuni anni nella parrocchia di S. Ernesto a Palermo, avevo assistito spiritualmente le ragazze in Istituti di beneficenza, ma quello che mi si presentò al CEP era fuori da qualunque mia aspettativa e conoscenza. Qui scoprii una umanità sofferente, emarginata, frustrata…
Ci racconti con maggiori dettagli, come l'ha vissuta? Cosa ha rappresentato per lei?
Nessuno aveva una vera conoscenza. Considerato che nella chiesa-baracca nei primi tempi vi era il deserto, pensai di andare in giro a visitare le famiglie con la scusa della benedizione delle case per capire quale era il vero stato di quella gente. Andavo all’imbrunire per trovare gente in casa, poiché il CEP era un quartiere dormitorio, di mattina si creava l’esodo e nel tardo pomeriggio tornava a ripopolarsi.
Generalmente venivo accolto bene. Mi presentavo, parlavo, domandavo sulla composizione della famiglia, sul lavoro, sul rapporto con la Chiesa. Rispondevano sempre con molto rispetto e generalmente presentavano la loro situazione tragica con molta crudezza. Non chiedevano aiuto, ma solo volevano rimanere in quelle case piene di luce, cosa che non avevano sperimentato dalla loro nascita, vivendo nei catoi dei Quattro Mandamenti di Palermo.
Scoprii che l’analfabetismo reale era imperante, non solo tra gli adulti, ma anche tra chi era in età scolare, anzi tra questi era in aumento. Il quartiere occupato nel gennaio 1968 con il terremoto del Belice, non aveva scuole. Vi era solamente una scuola materna per due sezioni. Scoprii anche che solo alcuni svolgevano un mestiere dignitoso e pochissimi avevano continuato gli studi dopo le elementari. Quasi la totalità viveva di espedienti ed era gente sfruttata e avvilita. Ebbi compassione di questa umanità sofferente.
Incominciai a parlarne nella scuola dove insegnavo. Alcuni colleghi mi instradarono agli uffici competenti, ai quali potersi rivolgere.
In alcune strade prive di fognature la puzza era ammorbante e i moscerini erano i padroni. A scuola ci fu chi mi consigliò di andare a trovare il Prefetto, figura che io non conoscevo. Andai e mi ricevette con molto garbo. Esposi il caso e mi disse: "Reverendo, questo problema deve essere risolto al più presto". Fu di parola ed io misi le ali.
Mi adoperai a risolvere il problema dell’inadempienza scolastica. Andai a trovare l’ispettrice scolastica, esposi il caso, furono presi in affitto i locali del pianoterra di un palazzo di nuova costruzione.
Non esistendo un capolinea, andai a trovare il funzionario dell’AMAT e fu un colloquio molto agitato. Alla mia richiesta pose un rifiuto netto, portando la motivazione, che gli abitanti del CEP erano pieni di pidocchi. Reagii con forza, minacciandolo di dire in giro che gli abitanti del CEP erano pieni di pidocchi e poi aggiunsi: "l’AMAT è un servizio pubblico che deve assumere anche l’impegno di educare la gente e poi a voi interessa che gli avventori paghino". Ci lasciammo con molta freddezza, ma non passarono quindici giorni che un pomeriggio mi venne a trovare per indicargli dove porre il capolinea.
Capii però che da solo non potevo risolvere tutti i problemi del territorio, allora invitai degli uomini e delle donne di buona volontà, senza esclusione. Fondai il Comitato di quartiere, al quale presero parte comunisti, socialisti, democristiani e altri. Non ci identificavamo nei partiti, ma nei problemi, come le case abusive, la luce nelle strade, le strade in terra battuta, la carenza di scuole, ecc. Ovviamente in tutto ciò non tralasciavo la mia attività di parroco, ogni giorno da solo tenevo la catechesi ai bambini nella chiesa-baracca; le duecento cinquanta sedie venivano occupate tutte.
Mi aiutavo con il microfono e un giradischi, parlavo, interrogavo, intonavo canti, così divenni il loro grande amico e dai piccoli poi man mano vennero gli adulti e si formò la comunità parrocchiale. Ricevevo e ascoltavo ugualmente chiunque per battesimi, matrimoni e funerali.
La chiesa-baracca divenne insufficiente e dopo circa dieci anni con il grande aiuto del Cardinal Pappalardo costruimmo il grande complesso. Ero veramente felice, ma non passarono due anni che i miei superiori mi trasferirono un un’altra parrocchia molto più articolata e complessa, per me fu un amore spezzato.
Di certo un'esperienza forte. Ha avuto momenti di cedimento, di sconforto o viceversa dei momenti di gioia e di soddisfazione?
Certamente all’inizio fu dura. Non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me. Quando all’inizio del marzo 1969 il Cardinal Carpino venne a benedire la chiesa-baracca ci fu un grande afflusso, ma più per curiosità che per un sentire religioso. Subito restai solo con qualche vecchietta e qualche bambino. Nello stesso tempo iniziarono le minacce.
Un pomeriggio andavo ad aprire la chiesa, quando notai un uomo seduto tutto solo sullo spartitraffico del vialone d’ingresso. Lo raggiunsi, feci alcuni passi oltre e mi sentii chiamare: "Parrì". Mi voltai, mi fece cenno con la mano di avvicinarmi. La prima sensazione fu di continuare per la mia strada, ma andai. Lui mi guardò e mi disse: "Parrì, vossia è uno scemo, qui più di quindici giorni non ci dura". Gli risposi: "Grazie" e ripresi la mia strada. All’indomani rividi quell’uomo allo stesso posto. Mi lasciò fare alcuni passi e ancora una volta mi ripetè la stessa frase.
Ricordandomi del giorno precedente, gli risposi ad alta voce, tanto da farmi sentire dai numerosi avventori: "Si ricordi, chi è più perseverante la vince", ed andai. Dopo tanti anni seppi che apparteneva alla mafia, essendo il capo o il controllore di una grande strada del quartiere. Ma le intimidazioni non finirono, anzi incominciarono. Ogni pomeriggio durante la celebrazione della messa arrivava un bel gruppo di ragazzi e facevano la pitruliata contro la parete orientale della chiesa, che era la meno controllata. I colpi di pietra sembravano cannonate.
Ricordo che una mattina, era lunedì, una ragazza venne a bussare al portone del collegio di via Badia, dove abitavo, per avvisarmi che nella notte avevano scassinato la chiesa-baracca. Andai e constatai che avevano rubato il tabernacolo, l’amplificatore e i microfoni. Più tardi mi trovavo dinanzi alla chiesa e sull’altro marciapiede vi era un giovane, che credeva che aspettassi qualcuno, ma quando capì che non aspettavo nessuno si avvicinò e mi disse che si sarebbe potuto interessare per recuperare la refurtiva. A me interessava recuperare l’Eucaristia. Andò a casa di quei balordi e mi portò il tabernacolo fatto a pezzi, la pisside smontata e i microfoni, ma non le ostie e l’amplificatore. Le ostie se l’erano mangiate e l’amplificatore se l’erano venduto.
Trovai diverse volte la maniglia del portone imbrattata da sterco umano. Ma l’offesa o l’aggressione più grande che ricevetti avvenne il primo gennaio 1970, quando trovai i vetri della chiesa frantumati a colpi di pistola.
Vinsi questa triste battaglia con il silenzio, non ne parlai con nessuno, nemmeno in casa. Capii che tirare i remi in barca sarebbe stata una grande sconfitta. Strinsi i denti, come si dice, e andai avanti.
Il 23 dicembre 1979 il Cardinal Pappalardo benedì la chiesa. Tra gli invitati c'era anche l’On. Piersanti Matterella, presidente della Regione Sicilia. Il 6 gennaio 1980 fu ucciso mentre andava a messa a S. Lucia. La polizia fece delle escursioni in varie parti della città in assetto di guerra. Un pomeriggio vennero anche al bar del CEP. Io mi trovavo dentro a telefonare all’ingegnere per le ultime rifiniture da fare in chiesa. La polizia spinse tutti quelli che stavano fuori dentro il bar e incominciò a perquisire uno per uno. Quando un poliziotto si avvicinò a me per perquisirmi un giovane ad alta voce gridò: "Questo è il nostro parroco e non si tocca". Questo episodio mi fece capire che chi stava lontano dalla Chiesa aveva una grande stima. Il poliziotto sorpreso mi guardò e mi disse: "Esca Reverendo".
Se avesse apertamente raccontato delle continue minacce e dei soprusi ricevuti, quale pensa sarebbe stata la posizione della Chiesa e delle istituzioni? E perché optò per il silenzio? Autodifesa, auto protezione o altro?
Questo metodo nessuno me lo ha suggerito. Nella vita quando si sanno leggere oggettivamente gli avvenimenti non vi è uno schema da seguire. Certamente se avessi fatto dall’inizio 'muro contro muro', sarei stato perdente. Ho lavorato seriamente per risolvere i problemi della gente e la gente si è schierata con me. Ma non ero solo, ricordo anche che una volta il Cardinal Pappalardo in piena assemblea del clero prese le mie difese.
Durante i suoi anni al CEP, in alcune occasioni trovò per la sua strada rappresentanti delle istituzioni e della Chiesa che le diedero una mano per portare avanti i suoi progetti. Lei ha sentito una vicinanza permanente delle istituzioni e della Chiesa nel suo operare giornaliero al quartiere CEP?
Certamente non mi sentivo solo. Avevo un Superiore Provinciale disponibilissimo all’inizio, basta pensare che spesso mi accompagnava per ascoltare i miei interlocutori, poi uscendo commendavamo. Con lui mi sentivo con le spalle al sicuro.
Il sindaco Giacomo Marchello, benché appartenente alla corrente andreottiana, fu veramente un benefattore per il CEP. Fu lui a venirmi a cercare. Una mattina di domenica, aprii la chiesa per la prima messa e subito dopo vidi un uomo seduto all’ultima fila di sedie vicino alla porta. Fui sorpreso di questa presenza all’inizio sconosciuta, dissi tra me: "Non è mio parrocchiano. Chi è? Io l’ho visto. Dove? Nel Giornale di Sicilia. È il sindaco". Era venuto ad invitarmi per il giorno dopo al Palazzo delle Aquile. Andai, alle domande davo le risposte. Seguirono altri incontri. Con lui si fecero le strade, l’illuminazione pubblica, le scuole, il mercatino.
Il Cardinal Salvatore Pappalardo mi fu padre, sostenendomi, difendendomi. Quando costruimmo la chiesa gli chiesi un Crocifisso del ‘700, che si trovava al museo diocesano, la Madonna con il bambino che aveva nel salone d'aspetto, un tabernacolo e una fonte battesimale di marmo del ‘600. Quando terminarono il lavori per costruire la chiesa non si riuscì a rivestire il pavimento. Mi mandò a chiamare e mi disse di preparare la chiesa per benedirla. Io opposi un netto rifiuto, dicendo che non sarei entrato in una chiesa senza pavimento. Notai nel suo volto una forte reazione, ma si controllò. Poi dissi: "Eminenza, ho dei soldi, ma per realizzare il pavimento non bastano. Facciamo così, Lei realizza il pavimento ed io pago il ripiano in marmo delle pareti". La proposta piacque al Cardinale, che il 23 dicembre del '79 venne a benedire la chiesa.
Tuttavia, quelli che più di tutti mi sostennero nel mio percorso furono gli abitanti del CEP.
Riferimenti bibliografici
Tra le opere di Padre Giuseppe Russo ricordiamo: 'P. Salvatore Giammusso' (2007), 'La fede vissuta dai primi cristiani ha diffuso il cristianesimo' (2006), 'Sicilia terra di emigrazione' (2006), 'I redentoristi di Agrigento' (2005), 'Stracci di tonache al vento' (2004), 'Alla sequela del Redentore con Sant’Alfonso' (2003), 'Isidoro Fiorini, missionario redentorista' (1999), 'L’uditore e i Redentoristi' (1997)
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