"Questo carattere di bene comune dell'acqua, inscritto per così dire nella storia secolare delle nostre città, sta nel fondo del nostro immaginario, come il nostro rapporto con il cibo, con il sole mediterraneo". Da Piero Bevilacqua un invito a riflettere sul vero senso del referendum per l'acqua pubblica e a ricercare forme originali e autentiche di protesta per riappropriarsi di un bene che è di tutti.
Senza nulla togliere al merito grandissimo dei comitati per il referendum sull'acqua pubblica, credo che tanto il successo nella raccolta (di 1 milione e 400 mila firme) che la rapidità con cui essa è stata realizzata, nasconda ragioni prepolitiche che non ci devono sfuggire. C'è nel fondo della nostra cultura, e per così dire ancestralmente legata alla nostra esistenza, la convinzione che l'acqua, prima ancora di manifestarsi come 'bene', una risorsa economica, ci appartenga come esseri umani, che essa è nell'aria, sulla terra, nel nostro corpo.
È dunque un elemento del mondo vivente, inseparabile da esso. Non solo il suo regime economico e giuridico, come ricordava nel XIX secolo il giurista Giandomenico Romagnosi, “non può essere regolato interamente coi principi coi quali si dispone di un pezzo di podere o dell'area di una casa”. Ma essa mostra altresì una universalità originaria nel processo della sua formazione che la distingue da gran parte delle altre risorse naturali, rendendola moralmente incompatibile con la sua mercificazione.
Il suo ciclo è un'opera gigantesca e completamente gratuita, realizzata dal sole, che solleva le acque degli oceani e quelle sparse nel pianeta e le redistribuisce purificate in forma di pioggia. Senza alcun intervento umano. Solo il momento terminale del convogliamento e della loro ripartizione necessita di un intervento tecnico e comporta dei costi. E solo questi costi dovrebbero essere sostenuti dagli utenti, equamente distribuiti, per avere a casa un bene che viene gratuitamente dal cielo. Mentre oggi, com'è noto, le grandi corporations dell'acqua pretendono e riescono a lucrarci profitti ingenti.
Non stupisce, dunque, il fatto che i cittadini boliviani di Cochabamba siano esplosi in una rivolta, nel 1999, quando la statunitense Bechtel (e altre multinazionali) imposero loro speciali licenze per potere accedere addirittura all'uso dell'acqua piovana. Perfino l'acqua senza costi, piovuta per l'appunto dal cielo, doveva entrare nel processo di valorizzazione del capitale, secondo la nuova furia predatrice che oggi anima questo modo di produzione.
Ma l'idea della mercificazione dell'acqua, anche quella distribuita dalle condotte, ripugna anche a noi italiani in quanto cittadini, abitatori da secoli di spazi urbani. Ci si fa poco caso, tanto fa parte della nostra consuetudine e del nostro sguardo quotidiano. Ma le nostre città sono disseminate di fontane pubbliche, dove l'acqua scorre liberamente, a disposizione del passante. In alcune delle nostre città – si pensi a Roma – le fontane si ammirano oggi per l'originalità e la bellezza delle fogge architettoniche, ma se ne dimentica la funzione originaria.
Le fontane, l'acqua corrente per tutti, facevano parte non solo dell'arredo estetico e sociale delle città, ma ne incarnavano una funzione fondamentale: quella dell'accoglienza, del ristoro al viandante, dell'ospitalità pubblica data a tutti. Ricordo ancora, dei miei vecchi studi su Venezia, una ordinanza del Comitato di Sanità della città, del 22 giugno 1797, la quale faceva obbligo a “tutti i Cittadini aventi Botteghe” di tenere “tutto il giorno in un sito esposto sulla pubblica Strada una Mastella di Acqua dolce e netta”, per dissetare i numerosi cani randagi che giravano per le vie cittadine.
Anche le città piccole e medie del Sud si sono storicamente fornite di fontane pubbliche, che nelle estati torride di quelle terre svolgevano una funzione sociale importante. Nella memoria della mia infanzia, al centro del quartiere di Sant'angelo, a Catanzaro, campeggia una fontana dove le sere d'estate le famiglie che abitavano nei bassi mettevano a fresco il cocomero.
Questo carattere di bene comune dell'acqua, inscritto per così dire nella storia secolare delle nostre città, sta nel fondo del nostro immaginario, come il nostro rapporto con il cibo, con il sole mediterraneo. Ebbene, io credo che nella lotta per promuovere il referendum sino al 12 giugno - a dispetto di tutte le incertezze che gravano sulla sua celebrazione - bisogna avere la consapevolezza di questo prerequisito antropologico che lega il comune sentire degli italiani nei confronti di questo bene primario.
È una base di partenza da valorizzare nello sforzo di raggiungere il quorum. Ma è anche la base per fare della campagna referendaria l'occasione di uno sforzo pedagogico di massa su che cosa sono i beni comuni. Lo stesso referendum contro il nucleare si inscriverebbe in questa prospettiva, perché volto a difendere la salubrità dell'aria e della terra dalla radioattività, a promuovere l'utilizzo del sole e del vento, beni comuni illimitati. È questo il terreno solido e dischiuso sino all'orizzonte su cui si può impostare la critica più popolare ed egemonica al capitalismo del nostro tempo, abbozzando al tempo stesso i lineamenti concreti di un diverso modo di produrre consumare, disporre delle cose.
È una pedagogia che può ricorrere anche a solidi argomenti economici, che tutti noi dovremmo sforzarci di porre in evidenza nelle prossime settimane. È facilmente prevedibile, ad esempio, che la privatizzazione dell'acqua farà aumentare le tariffe. Ora, questo avverrà in un contesto economico che, come tutti sanno, è di feroce pressione sui redditi delle famiglie.
Mentre la politica dell'UE si modella su una cieca politica deflattiva, con tagli sempre più dolorosi allo stato sociale, le tariffe dei servizi essenziali aumentano (luce e gas) insieme a tanti altri servizi comunali e nazionali, fatti lievitare dall'inflazione. Gli aumenti tariffari piovono sulla testa dei cittadini, senza che essi possano opporsi in alcun modo. Il referendum è in questo caso l'unico strumento a portata dei cittadini per impedire che un ulteriore aggravio si abbatta ben presto sulle loro limitate economie.
All'ampiezza di queste ragioni e motivazioni dovrebbe oggi corrispondere uno sforzo collettivo dell'intera sinistra per vincere questa grande partita. Molti hanno già sottolineato quale svolta politica e culturale potrebbe determinare una conclusione vittoriosa dei referendum. Ma vista la posta in palio, io credo che lo sforzo organizzativo necessiti non solo di un impegno straordinario di mobilitazione. Spesso la nostra debolezza politica è anche il risultato delle mille cause che quotidianamente sposiamo, disperdendo le nostre energie. In questo mese dovremo essere più freddi e selettivi.
Sarà allora necessario inventare forme di protesta originali, come quelle ideate da precari e studenti, già lo scorso anno, in grado di richiamare l'attenzione dei media, di obbligarli a parlare di eventi vendibili al loro pubblico di consumatori. Occorre che i nostri giovani volontari siano presenti con cartelli semplici davanti ai supermercati, ai mercatini e ai luoghi di maggiore concentrazione. E, a mio avviso, non dovrebbero mancare, nei vari angoli delle città, i banchetti dell'acqua: quelli stessi dove si sono raccolte le firme, che siano forniti di acqua da offrire ai passanti, con cui intrattenersi sui temi dei referendum. L'acqua pubblica della solidarietà, della nostra civiltà urbana. E gli studenti protagonisti delle lotte degli ultimi mesi dovrebbe organizzare simili presidi nelle scuole e nelle Università.
Io credo che il raggiungimento del quorum può essere il risultato di una mobilitazione speciale, quale fu quella contro la guerra in Iraq nell'inverno-primavera del 2003. Ricordiamo tutti i drappi multicolori appesi alle nostre finestre e ai nostri balconi. Bisogna fare altrettanto per i referendum, lenzuola e drappi bianchi che invitino a votare sì. Si può fare perché come allora la pace – non oggi, purtroppo - anche l'acqua pubblica accomuna, ricuce le nostre eterne divisioni, e la stessa mobilitazione può costituire l'occasione per fare prove di unità tra le forze della sinistra. Quell'unità che ci darebbe tante possibilità di vittoria, se fosse davvero seriamente ricercata. Quell'unità che nasce dalla adesione agli effettivi bisogni popolari, al reale interesse generale.