Ma oggi il problema non si porrebbe: i prosciutti, crudo e cotto (il cotto un tempo diventava grigio-giallo), mantengono il loro colore rosso e rosa all’infinito. Così come le carni nei pacchetti di plastica o sui banconi delle macellerie. Non c’è più pericolo di ossidazione. Il progresso ci dona carni di manzo, di pollo, di maiale sempre rosee e rosse, e che non puzzano più del loro odore naturale di carne morta, e morta da parecchi giorni.
Chissà se anche gli imbalsamatori egizi mettevano i nitrati nei loro miscugli.
“La carne rossa è cancerogena, lo dice l’OMS” hanno strillato i media per il tempo di un millesimo di secondo. Lasciando incredula la gran parte della gente che li ha ascoltati.
Se avessero detto che la carne, rossa e rosea, (cioè di qualsiasi animale di allevamento chimico-intensivo) è zeppa di sostanze estranee e cancerogene, tra cui i nitrati e i nitriti, la cui cancerogenità è finalmente provata, probabilmente tutti ci avrebbero creduto. Ma forse non era questo lo scopo che si prefiggevano.
I nitrati e i nitriti vengono aggiunti alle carni lavorate, per esempio a tutte quelle che chiamiamo “salumi”. Per le carni fresche il progresso, che non ci dà più tregua, ha inventato l’esposizione a una miscela di gas in cui è sempre presente il monossido di carbonio, spesso in collaborazione col monossido di azoto. Le carni assorbono i gas e mantengono artificialmente il colore della carne “fresca” (cioè appena morta) “anche per 29-30 giorni”. Così, assieme agli antibiotici somministrati quotidianamente alle povere vittime degli allevamenti intensivi, ai pesticidi somministratigli altrettanto quotidianamente col mangime impestato e che si accumulano nei loro tessuti, il consumatore di carne prodotta intensivamente e conservata chimicamente s’inzeppa anche di nitrati, nitriti, monossido di carbonio e di azoto.
Il monossido di carbonio è un gas mortale, ma naturalmente gli apprendisti stregoni-sacerdoti del progresso chimico-industriale lo dosano in modo che apparentemente non nuocia.
Il monossido di azoto lo produce anche il nostro organismo, è una componente importante del sistema immunitario per rispondere a infezioni e infiammazioni; contribuisce a regolare le funzioni vascolari. Possiamo immaginare cosa significhi introdurne quantità non richieste nel delicato equilibrio immunitario.
Ma, se mangiare i prodotti dell’allevamento intensivo fa male al nostro corpo, io credo che nutrirsi di animali maltrattati, segregati, umiliati e disperati, faccia ancora più male alla nostra anima.
I popoli che hanno vissuto in armonia con la natura, i nostri progenitori del paleolitico e del neolitico, si nutrivano anche di animali, ma erano consapevoli del pericolo che ciò comportava, erano consapevoli di commettere un’azione che andava espiata. Lo stesso sentimento ha accomunato finora i popoli selvaggi o primitivi, cioè che vivono più o meno come si viveva nel paleolitico e nel neolitico.
“Ma anche la maniera che un Hunza sceglie per abbattere un animale domestico mostra che lo fa con rimpianto… Prima dell’autunno si abbattono soprattutto gli animali anziani, dato il poco foraggio ammassato per l’inverno… Credo che la povera pecora non si sia neppure accorta di ciò che le stava accadendo. Appena cominciava a dare il più piccolo segno di inquietudine, si agiva in modo da farle credere che la si stava semplicemente tosando… ed invocando ad alta voce Dio, il compassionevole, il misericordioso…” (Ralph Bircher, “Gli Hunza”)
“Solo gli uomini cantavano, melodie semplici e ripetute… Lo stile maschio e tragico richiamava alla mente i cori guerrieri di qualche Mannerbund tedesco. Perché questi canti? A causa del “Irara”, mi fu spiegato. Avevano portato della selvaggina ed era necessario, prima di poterla consumare, compiere un complicato rituale per consacrarla e pacificare il suo spirito.” (Lévi Strauss, “Tristi tropici”)
Quando entrate in un allevamento industriale e vi avvicinate ad una delle barriere oltre le quali gli animali sono pigiati, stipati, affollati, loro, maiali, mucche, manzi, galline, si fanno attenti, vi seguono con gli occhi; le mucche e i manzi più audaci si protendono verso di voi e lo stesso fanno i maiali. Siete un estraneo.
Tutti i giorni entrano là dentro degli esseri umani, che loro conoscono e dai quali sanno cosa aspettarsi: cibo e il rinnovarsi della loro sofferenza e, se qualcosa di meno consueto si verifica, possono essere spinte, calci, strattoni, urla, bastonate, se non peggio. Ma quando appare un essere umano estraneo, e non appena questi dimostra un po’ d’interesse, cercano di avvicinarsi: i loro occhi sono fissi su di voi, in attesa. Si aspettano qualcosa e la loro attesa è evidente. Non è provata “scientificamente”, come oggi si usa dire, ma è davanti ai vostri occhi, e somiglia ad un’implorazione.
Sanno che, nonostante tutto il loro dolore provenga dagli esseri umani, solo dagli esseri umani può venire la salvezza.
Questa loro speranza è anche la nostra unica speranza: gli animali sanno che possiamo essere diversi.
Ma noi, lo sappiamo? Non c’è traccia oggi dell’avverarsi di tale speranza, se non per quella piccola parte del genere umano che lotta consapevolmente per i diritti degli animali, che prova compassione per le loro sofferenze e cerca, oltre che di non esserne complice, di agire per farle cessare.
Una piccola parte.
La maggior parte, anche di quelli che ritengono di amare gli animali, mangia petti di polli torturati, costolette di maiali e bistecche di manzi seviziati dal primo giorno di vita fino al loro ultimo respiro. Indossa giacconi con colli di pelo di cani, volpi, procioni torturati e seviziati fisicamente e psicologicamente per tutta la loro vita e poi scuoiati vivi. Se pericolosi nel parossismo del dolore, come cani e volpi, dopo una bastonata in testa; se inermi, come i conigli, appendendoli direttamente vivi e coscienti a una fila di uncini per poi scuoiarli. Per risparmiare tempo, perché il tempo è denaro.
Milioni di persone nel mondo indossano quei morbidi colli di pelliccia. Che danno una sensazione di calore e tenerezza.
La maggior parte di quelle persone non farebbe mai del male, volontariamente e con le proprie mani, a un cane o ad un coniglio, a una volpe o ad un procione. Ma la maggior parte di quelle persone non vuole neanche sapere, non vuole conoscere ciò che la costringerebbe ad assumersi una responsabilità.
Che cos’è l’essere umano quando delega ad altri le proprie scelte e persino le proprie colpe? E’ ancora umano? E’ ancora un animale? O è qualcosa di nuovo e diverso?
La compassione non può prescindere dalla responsabilità. E oggi la responsabilità non può prescindere dal coraggio. Il coraggio di essere diversi, di fare scelte controcorrente, di affermarle e di cercare di diffonderle; il coraggio di informare e di pretendere.
Il coraggio di rispondere a quell’implorazione.
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