Girato nell'arco di tre anni in un casale dei Castelli Romani dove un gruppo di ragazzi ha scelto di vivere insieme, "Il tempo delle api" è il racconto intimo e graffiante di una stagione della vita, dell'entusiasmo che fa decollare un progetto e delle difficoltà pratiche e relazionali che possono nascere lavorando ad un'impresa comune.
Abbiamo incontrato i registi e li abbiamo intervistati.
Cosa vi ha spinto a girare questo film?
L’elemento trainante, quello cioè che ci ha convinto ad iniziare le riprese è stato lo spirito pioneristico dell'impresa e la determinazione dei nostri protagonisti. Ma anche la possibilità di raccontare con la loro sperimentazione un contesto, quello di un comune di campagna, ispirato ai principi dell’autoproduzione e della sostenibilità, le cui atmosfere ci avevano affascinato per la connessione con i ritmi naturali, la calma del quotidiano e le stagioni che si riflettevano nella vita della comunità.
Qual è la storia e perché avete scelto di raccontarla?
E' la storia di due ragazzi che provano ad allevare le api in maniera naturale imbattendosi in tutte le difficoltà del caso (perché al di là di quella che è stata la loro esperienza c’è un dato – quello della moria delle api – con cui il mondo apistico è costretto suo malgrado a confrontarsi). Raccontarla aveva ed ha per noi il valore di accendere una luce su un tema di rilevanza globale attraverso il racconto di una vicenda umana, fatta di sogni, passioni, incomprensioni e conflitti. Prima di iniziare le riprese non ci eravamo interessati di apicoltura, non avevamo e non abbiamo le conoscenze necessarie per trattare il tema da un punto di vista scientifico ma neanche l’intenzione di farlo. Il tempo delle api non è un film che illustra un metodo nè propone una soluzione, è una storia di vita.
Essere dentro la realtà da rappresentare rende più facile o più difficile raccontarla? Il documentario è a tratti implicito e sospeso: una scelta?
Quando giri un documentario devi fare i conti con l'imprevedibilità del reale, i personaggi non seguono un copione e la storia prende forma giorno dopo giorno. Questo genere di documentario è quindi da un lato frutto del caso, perchè necessariamente legato all'evoluzione degli eventi; dall'altro di una scelta, prima tra tutte quella di non intervenire nella narrazione con una voce fuori campo per spiegare al pubblico passo dopo passo quello che sta accadendo. Una decisione che vuole essere in qualche modo in linea con la percezione stessa che abbiamo della vita: siamo noi con gli elementi che abbiamo (pochi a volte) a dover dare un senso al reale. A volte per capire cosa sta accadendo puoi basarti solo su un numero limitato di elementi, uno sguardo, il tono di uno discorso, il resto ce lo metti tu e arrivi alla conclusione. Questa è la realtà che vorremmo riprodurre nei nostri lavori: atmosfere, sguardi, frammenti di una conversazione e poi la vita che cambia e volta pagina senza esitazione. Il cinema documentario può darci tanto ma chiederci altrettanto. Chiederci attenzione, partecipazione e coinvolgimento, chiederci di riempire quei vuoti di senso che sperimentiamo ogni giorno. Così che l’esperienza cinematografica sia davvero vicina alla vita stessa. Questa è la nostra posizione, senz’altro lontana da ogni semplificazione, dalla comodità di un prodotto didascalico e dai ragionamenti prêt-à-porter. Per noi il cinema è vita e la vita la percepiamo così, in maniera intensa e frammentata.
Qual è il cinema a cui vi ispirate?
Il cinema che amiamo è quello di Michael Haneke (penso ad Amour per esempio), quello di Asaf Korman con Next to her, a Faces di Cassavetes, A simple life di Ann Hui, a Festen di Thomas Vintemberg e Leviathan di Andrei Zvyagintsev o il cinema documentario di Keith Fulton e Louis Pepe, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.
Dove è possibile acquistare il dvd?
In qualunque libreria oppure attraverso il sito della CG Entertaiment.