Dopo 8 mesi di guerra civile e dopo la morte di Gheddafi, sulla Libia è calato il silenzio mediatico. Il Ministro libico per la gioventù e lo sport, in visita a Roma, lancia un appello: "non spegnete i riflettori sul nostro paese".
Tornare a parlare di Libia può sembrare strano, dopo l'oblio mediatico in cui è caduta questa nazione, fino a due mesi fa al centro delle cronache di tutto il mondo. Il tentativo di ricostruire democraticamente un paese sconvolto da 40 anni di dittatura e da 8 mesi di sanguinolenta guerra civile non fa più notizia, o almeno, non quanto le vessazioni sul cadavere del dittatore, trasmesse per giorni in mondo visione. Fine dello show. Il tiranno è morto, poco importa come e perché.
Il silenzio è calato sulla Libia, e sulle storie che hanno preceduto o seguono quel 20 ottobre. Come quella di Fathi Terbil, giovane avvocato trentenne e attuale Ministro dello sport e della gioventù nel nuovo governo di transizione libico. Terbil ha da poco ricevuto a Bruxelles il XVI Premio Internazionale per i Diritti Umani Ludovic Trarieux, per il suo impegno nella difesa dei parenti delle vittime del massacro nel carcere di Abu Salim nel 1996, quando 1200 detenuti, rei di aver protestato contro le condizioni disumane di detenzione, furono uccisi in meno di due ore.
Tra le vittime di quell'atroce massacro anche suo fratello, suo cugino e suo cognato, e numerosi compagni di università. Tra i promotori della primavera araba, Terbil a Roma su invito dell'Unione forense per la tutela dei diritti umani, ha raccontato la sua storia, e quella di tanti che, come lui, hanno sfidato il regime e manifestato per la libertà.
Tutto ha inizio con quel massacro passato sotto silenzio fino al 2007, quando i parenti delle vittime bussano alla sua porta in cerca di giustizia. Nel giro di tre anni riesce a far ammettere al regime la responsabilità del massacro e a far ottenere a oltre 900 famiglie i certificati di morte dei loro congiunti. Un impegno che pagherà caro. Durante una delle manifestazioni organizzate assieme ai familiari delle vittime, nell'aprile 2010, viene colpito alla testa con un'accetta da una guardia di sicurezza. Giunto in ospedale viene arrestato e il suo attentatore messo in libertà.
Seguono il divieto di accedere a qualsiasi carica pubblica e di viaggiare, poi il graduale impedimento a comunicare telefonicamente, infine le minacce ai suoi familiari. E i continui arresti. L'ultimo dei quali porta in piazza a Bengasi, per protesta, quasi duemila persone. Due giorni dopo, il 17 febbraio, l'insurrezione si espande in tutta la Libia, trascinando con sé otto mesi di guerra civile fino al tragico epilogo della cattura e poi morte/esecuzione del rais Muammar Gheddafi.
Durante la sua detenzione, racconta Terbil, l'allora capo dei servizi segreti gli propose di diventare capo dell'istituto internazionale Gheddafi per la tutela dei diritti umani e di completare i suoi studi all'estero, nel chiaro tentativo di comprarlo e di allontanarlo 'con le buone' dalla Libia. “Mi hanno perseguitato per anni – rivela – ma l'immenso numero di famiglie distrutte per mano del regime, mi ha dato la forza di andare avanti”. Questi sono solo alcuni dei fatti che non sono passati all'onore delle cronache nostrane, e non solo, durante questi anni.
Terbil racconta delle 17.000 vittime libiche nella guerra con il Ciad, di migliaia di studenti dissidenti massacrati sotto gli occhi dei loro parenti, delle esecuzioni capitali trasmesse a mo' di monito dalle tv libiche, dei 470 bambini ai quali è stato somministrato sangue infetto da AIDS, o dell'areo civile fatto cadere a Bengasi con a bordo 170 persone. La lista dei crimini commessi da Gheddafi si allarga fino a toccare l'Europa, con gli attentati in Sicilia, Scozia e Francia, il cuore di quell'occidente che per decenni ha dato appoggio ai regimi dittatoriali sacrificando i diritti delle persone a interessi economici e militari.
Difficile credere, persino per lui, che il responsabile principale di quegli attentati, sia stato poi accolto con fasti e onori dai capi di governo di quegli stessi paesi: “Il baciamano di Berlusconi a Gheddafi, ha lasciato in tutti noi un profondo senso di delusione. Amiamo e rispettiamo il popolo italiano, che si è sempre dimostrato molto disponibile nei nostri confronti. Per questo credo che l'Italia, non può, né deve essere rappresentata, da una classe politica che non merita”.
Uno sguardo al passato, ma è il futuro ciò che più conta ora. Dopo i mesi di rivolta e combattimenti oggi la parola d'ordine in Libia è 'normalità'. I libici vogliono tornare ad essere padroni del loro destino: “Non permetteremo che in Libia torni la dittatura sotto qualsiasi copertura, politica o religiosa. Vogliamo essere patria della democrazia e parte della comunità internazionale” . Ritornare alla normalità non sarà facile, e molti sono ancora i nodi e i dubbi da sciogliere.
Come le sorti del figlio di Gheddafi, Saif al Islam, attualmente in carcere. Terbil assicura che il processo sarà istituito in Libia e che sarà giusto e equo, che sarà rispettata l'autonomia della magistratura e che si interverrà solo in caso di violazioni dei diritti umani. In Libia infatti vige la pena di morte e non esclude che possa essere applicata. Auspica poi una commissione d'inchiesta che faccia luce su eventuali responsabilità per la morte di Gheddafi. E poi la sharia come primario riferimento giuridico del nuovo Stato, che Terbil non smentisce ma, precisa, non bisogna confondere con il fondamentalismo e il terrorismo.
E infine, i lavori per istituire le future elezioni democratiche con cui si formerà il nuovo governo che prenderà il posto dell'attuale governo di transizione. “Ci impegneremo perché la Libia ritorni a essere uno stato di diritto rispettato, una terra dove sia possibile costruire un futuro. Per questo chiedo, soprattutto ai media, di non spegnere i riflettori sul nostro paese. Lo dobbiamo a tutti i giovani che in questi mesi hanno lottato per la libertà di questo paese e che non vogliono e non possono essere dimenticati”.
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