di
Andrea Degl'Innocenti
22-03-2012
Governo e sindacati si scontrano sull'articolo 18. Perché tanta fretta di modificare una norma che riguarda solo l'1 per cento dei licenziamenti e una fetta sempre minore di lavoratori e lavoratrici, mentre crescono precarietà e disoccupazione? La risposta va forse cercata proprio nell'alto valore simbolico dell'articolo in questione, che rappresenta anni ed anni di rivendicazioni e di lotta da parte di cittadini-lavoratori.
Continua, serrato, lo scontro sull'articolo 18. Da una parte i sindacati, dall'altra il governo. Nel mezzo, in ordine sparso, le principali forze politiche italiane, divise anche al loro interno sulla posizione da occupare nel dibattito. Ma forse, più che seguire passo passo le dichiarazioni di politici e sindacalisti, della ministra del lavoro Fornero, di Monti, della Camusso, è interessante cercare di analizzare quanto sta accadendo, partendo da una domanda: perché è tanto importante l'articolo 18?
Anche il precedente esecutivo aveva tentato a più riprese di modificarlo, senza risultati. Ma a ben vedere, l'articolo 18 ha un raggio d'azione molto limitato. Esso tutela i lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa nelle seguenti situazioni: nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, 5 se agricole; in quelle con meno di 15 dipendenti - 5 se agricole - se l'azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti, 5 se agricola; nelle aziende con più di 60 dipendenti.
L'importanza dell'articolo 18 sta nel fatto che, in caso di licenziamento illegittimo l'azienda è tenuta al reintegro del lavoratore e a pagare una sanzione pecuniaria, rendendo di fatto nullo il licenziamento. Si parla di reintegrazione del lavoratore e non di riassunzione, per far sì che il dipendente non perda l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti con il precedente contratto. Negli anni l'art.18 è servito ad evitare che le aziende licenziassero su base ideologica, o fossero tentate di sbarazzarsi degli anziani, meno produttivi.
Ciononostante l'articolo 18 riguarda una percentuale minima dei licenziamenti, circa l'1 per cento. E la percentuale è in costante calo, a causa dell'aumento della precarietà e della disoccupazione (non saranno forse questi i veri problemi riguardanti il lavoro?). Ma allora perché tanta fretta di modificarlo da parte del governo? È la stessa domanda che si fa Marco Travaglio in un commento sul Fatto Quotidiano. “Siamo proprio sicuri che l’insistenza del governo e del Quirinale sull’art. 18 risponda a motivazioni economiche e non al progetto tutto politico di isolare le voci stonate dal pensiero unico, tipo Fiom, Idv, Sel e movimenti della società civile, e di cementare l’inciucio Pdl-Pd-Terzo Polo?”, si chiede.
L'ipotesi è interessante; forse però c'è anche qualcos'altro. L'art.18 ha soprattutto un valore simbolico. Pur riguardando una fetta sempre minore di lavoratori rappresenta probabilmente la massima conquista di anni e anni di lotte e rivendicazioni sociali. Quelle lotte che sono riuscite col tempo a dare un volto umano alla società – pur profondamente ingiusta e basata su paradigmi errati – in cui viviamo, a limitare le sopraffazioni, a limare gli spigoli del capitalismo.
Come ha recentemente affermato il teorico della decrescita Serge Latouche, “i governi europei stanno muovendo un attacco frontale all'unica cosa positiva che più di un secolo di capitalismo ha creato: lo stato sociale”. Ma i tempi sono cambiati ed il capitalismo ha deciso di mostrare adesso il suo volto più feroce. E le operazioni simboliche diventano strategiche. In Italia il governo Monti sta attaccando il simbolo di tutte le lotte, per attaccare le lotte stesse.
Il governo non combatte solo una battaglia economica per abbattere le barriere in uscita dal mercato del lavoro - concetto già di per se deprecabile perché implica una competizione fra stati verso il basso -, ma anche una battaglia politica e sociale contro l'idea stessa delle rivendicazioni dei lavoratori, contro il ricordo delle lotte operaie, contro un modello sociale che, pur con i suoi limiti e controsensi, aveva dato vita ad un movimento coeso e capace di ottenere risultati concreti. Alle sue spalle, a dargli manforte, ci sono i mercati. Sarà un caso che non appena la riforma del lavoro si è scontrata con le prime difficoltà e opposizioni lo spread è tornato a salire di colpo?
Accanto a queste considerazioni ve ne sarebbero da fare altre, ben più approfondite, sul significato stesso di lavoro, e di una società basata su di esso. Un lavoro che che spesso rende l'uomo schiavo, annulla ogni altra dimensione sociale, uccide l'indispensabile ozio. Per approfondire le tematiche relative al lavoro, rimandiamo ad uno speciale del Cambiamento di quasi un anno fa ma ancora del tutto attuale dedicato al senso del lavoro.
È comunque importante ricordare che, come sosteneva Hannah Arendt, “non v'è condizione peggiore di chi è senza lavoro in una società del lavoro”. E che, come gli ha fatto recentemente eco Serge Latouche, “non c'è di peggio che la recessione in una società della crescita”. Purtroppo il piano neoliberista consiste proprio in questo: mantenere intatto il paradigma ma scardinare quei pochi elementi che lo rendevano, se non accettabile, perlomeno vivibile.
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