I bambini hanno i loro tempi, in tutto; e possono essere tempi diversi per ciascun bambino. Assecondare ritmi e percorsi evolutivi individuali, valorizzare l’esperienza positiva e l’apertura mentale dei piccoli rafforza la loro autostima e fa di loro futuri adulti consapevoli, sereni e felici. Ma non c’è nulla di facile in tutto questo oggi. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i pedagogisti e…lo pagano sulla loro pelle i bambini stessi.
«L’autostima si costruisce lentamente nel tempo con un giusto rapporto tra genitori e figli e tra docenti e studenti» spiega la dottoressa Tiziana Cristofari, consulente di pedagogia e autrice di libri per bambini e adolescenti. «Sia i genitori che i docenti devono fare un lavoro molto importante, impegnativo, affettivo se vogliono permettere ai bambini di costruirsi l’autostima che gli servirà per tutta la vita. Non basta dire ai bambini: “Devi avere più fiducia e più stima di te”. Bisogna “essere” in un certo modo per far sì che i bambini possano acquisire un certo sentire».
Ci sono atteggiamenti e condotte da evitare. «Innanzitutto il disaccordo tra mamma e papà; i genitori devono essere coerenti e concordi con l'atteggiamento da adottare nei confronti dei figli. Se uno dei due dice “bravo” e l'altro dice “potevi fare meglio”, si crea confusione nella mente del bambino e antagonismo tra i genitori. Se il bambino torna a casa con un brutto voto non va sminuito, né aggredito, né deriso. Il giusto comportamento è cercare di capire il perché di quel brutto voto, facendo molte domande al bambino: domandare senza giudicare, parlare molto, confidarsi crea fiducia e aumenta il rapporto di stima. Il più delle volte il piccolo non saprà cosa dirvi: a quel punto voi dovete rispondere che ci saranno altre prove che andranno sicuramente meglio; che sbagliare serve a capire come fare le cose in modo giusto; che la mamma e il papà non sono arrabbiati, ma solo un po’ tristi perché sanno che lui è triste.
Riguardo agli insegnanti, quando un bambino non raggiunge l’obiettivo non va deriso in classe, né sminuito, nè aggredito. I bambini sanno quali sono i loro compiti, lo sanno forse anche più di noi. Se un bambino non raggiunge l’obiettivo c’è sempre un motivo. Atteggiamenti scorretti non solo impediranno il formarsi dell’autostima, ma causeranno nel bambino tutte quelle dinamiche aggressive, di disattenzione, depressive (vedi il pianto, il rifiuto di alzarsi la mattina, il non voler fare i compiti, la tristezza, ecc.), che sono tipiche di molti bambini».
Sull’atteggiamento degli adulti influisce parecchio la cultura delle famiglie e il loro vissuto. «Ci sono insegnanti fantastici e altri che dovrebbero cambiare mestiere perché non hanno alcuna competenza dal punto di vista metodologico e nessuna consapevolezza dal punto di vista psichico di come si muovono i bambini e di quali siano le loro necessità».
E la “vecchia” scuola in sé, come impostazione, non è adeguata né all’altezza della sfida. «I bambini risentono dell’imposizione a fare determinate cose secondo parametri standard di una educazione ormai vecchia, tipo la metodologia di studio e di approccio relazionale tra insegnanti e studenti – continua Cristofari – C’è la pretesa di fare tutto e subito secondo uno standard alto della classe, quindi ignorando che ogni bambino ha i suoi tempi di apprendimento; e si fanno poi diventare “malati” tutti quei bambini che questo standard alto non riescono a tenerlo o a raggiungerlo. Molti genitori, poi, pretendono che i loro figli siano i migliori della classe, senza tener conto che molto spesso i migliori lo sono per simpatia da parte del docente e per l’effetto Pigmalione».
Cosa fare dunque? La dottoressa Cristofari sottolinea la necessità di «rimettersi in discussione per modificare i comportamenti». «Quando gli adulti si assumono la responsabilità di essere “migliori” (perché d’imparare non si smette mai), allora hanno già vinto! Occorre guardarsi dentro, accettare anche di aver sbagliato e non commettere più lo stesso errore. C’è da dire che i bambini sanno perdonare e dimenticare moltissimo, cosa che noi adulti il più delle volte non sappiamo fare».
Quindi, «se vogliamo che i bambini si sentano sicuri, dobbiamo innanzitutto dar loro sicurezza. E come si fa? Per esempio non sminuendo le loro paure, bensì cercare di comprenderle e accoglierle rassicurandolo. Ciò permette al bambino di comprendere che voi lo avete capito nei suoi timori. È importante ricordare che i bambini vivono molto in modo spontaneo; questo significa che ciò che per noi può sembrare assurdo o scontato, non lo è per loro. Se noi assumiamo nei loro confronti atteggiamenti ostili, magari pensando che mentano, che non sia vera quella certa paura, stiamo passando una comunicazione che dice che noi non crediamo in loro. Quel sentirsi non compresi distrugge letteralmente in loro l’autostima perché voi siete il punto di riferimento che viene a mancare. Ascoltare senza giudicare, facendo esprimere il parere del bambino o della bambina sempre, è un modo quasi unico per costruire in lei/lui la stima di sé e nei genitori».
Ma veniamo agli insegnanti. «Il bambino deve essere libero di gestire il suo sentire affettivo. Con mamma e papà è facile perché c’è più confidenza. Ma con gli estranei (perché i docenti per loro sono estranei!), ci vuole il rispetto degli insegnanti nei confronti dei piccoli perché i piccoli possano a loro volta imparare che negli affetti non c’è soggezione. In classe, l’atteggiamento dell’insegnante che vuole aiutare i suoi studenti è improntato alla fiducia che deve avere nei confronti dello studente stesso e alla sua capacità di docente di creare relazioni. Fiducia significa che l’insegnante non dimostra in alcun modo pregiudizio nei confronti dello studente. L’insegnante deve pensare che lo studente ce la può fare, qualunque sia il punto di partenza. Facciamo un esempio. Se io noto che un alunno ha tempi di apprendimento più lunghi degli altri e comincio a pensare che potrebbe essere dislessico senza avere nessuna diagnosi che lo certifica, io per prima gli trasmetterò un pensiero di impossibilità di riuscita nello studio che diventerà realtà. Ma anche se avessi una certificazione di diagnosi di dislessia, gli insegnanti hanno l’obbligo di credere nella riuscita di quell’alunno. Perché la diagnosi di dislessia non è una diagnosi d’impossibilità allo studio; al più ci sono strumenti che semplificano la metodologia di studio, nulla di più e nulla di meno. Ogni studente ha le sue potenzialità, ma a ogni studente va data fiducia, sempre, anche quando sbaglia. Perché dopo che ha sbagliato, gli si può far capire qual è la strada giusta e da lì far partire il cambiamento. E più ci credono gli insegnanti, più gli dà fiducia, più ci si accorgerà che risponderà alle sollecitazioni in modo positivo».
Quindi, da fiducia nasce fiducia, da rispetto nasce rispetto, da amore nasce amore.
Prendetevi un po' di tempo per guardare il film-documentario "Schooling the world" che ci mette in guardia nei confronti dei pericoli della omologazione di massa intesa come educazione
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