Dopo anni di segnalazioni da parte del WWF di Rovigo e l'interrogazione presentata da un europarlamentare alla Commissione europea, Bruxelles ha avviato un'inchiesta per mettere fine all'attività di bracconaggio nel Parco del delta del fiume Po.
Da anni le specie che vivono nel parco del Delta del Po - riconosciuto nella lista del patrimonio mondiale dell'Unesco e parte della rete europea Natura 2000 - sono sottoposte alla minaccia del bracconaggio. Appostamenti abusivi, utilizzo di richiami acustici elettromagnetici, caccia di specie protette, sono alcune delle irregolarità riscontrate dal WWF di Rovigo e da altre associazioni ambientaliste e denunciate alle amministrazioni locali, senza ottenere progressi.
Per questo, forse, l'unica strada praticabile è sembrata quella di rivolgersi alla Commissione europea, con un'interrogazione presentata dall'eurodeputato Idv Andrea Zanoni.
La risposta di Bruxelles è arrivata. La scorsa settimana il commissario all'Ambiente Janez Potočnik ha dichiarato che la vigilanza nell'area è insufficiente e ha annunciato che l'Esecutivo Ue indagherà “presso le autorità italiane sull'efficacia dei provvedimenti adottati per porre rimedio all'attività di bracconaggio nel Parco”.
Una prima, importante, vittoria, anche se bisognerà attendere l'esito dell'inchiesta per capire quali saranno le raccomandazioni all'Italia e, in seguito, quali le misure effettivamente adottate. Una vicenda che è riuscita a conquistare l'attenzione pubblica, in un mare di situazioni analoghe vittime di una generale indifferenza.
In Italia, come altrove, la protezione di un'area non si traduce automaticamente in effettiva tutela della biodiversità.
Secondo una recente ricerca pubblicata sulla rivista Biosciences, dal titolo Emptying the Forest: Hunting and the Extirpation of Wildlife from Tropical Nature Reserves, ad esempio, nelle riserve tropicali la presenza di uccelli e mammiferi sarebbe già molto inferiore ai livelli naturali a causa del bracconaggio, nonostante oltre il 18% delle foreste pluviali tropicali rientri in aree protette. La caccia illegale interessa soprattutto il sud-est asiatico e l'Africa, ma sta assumendo proporzioni preoccupanti anche in Amazzonia.
Ad essere maggiormente esposte, spiega la ricerca condotta da Rhett D. Harrison, studioso dello Smithsonian Tropical Research Institute, sono soprattutto le aree più piccole, quelle comprese tra mille e 10mila ettari, che tendono ad essere considerate a bassa priorità di conservazione, nonostante rappresentino habitat essenziali per molte specie.
Allo stesso modo si tende a sottovalutare l'impatto della caccia di animali poco noti e piccoli, che non conquistano la stessa attenzione riservata a elefanti o rinoceronti, ma, sottolinea Harrison, “sono altrettanto vitali per il mantenimento dell'ecosistema”. A questo si aggiunge il fatto che spesso le autorità che gestiscono le riserve non denunciano i problemi di bracconaggio.
Per questo, secondo Harrison, la comunità scientifica dovrebbe cambiare i parametri usati per misure i progressi nella tutela della biodiversità, ammettendo che l'aumento delle zone protette non è garanzia di efficacia nel preservare le specie a rischio.
Servono anche risorse adeguate, e quindi inevitabilmente scelte politiche orientate a sostenere finanziariamente la tutela della biodiversità, la possibilità di creare reti tra queste riserve, il miglioramento della gestione e maggiori e più seri controlli. L'istituzione di un'area protetta è solo un primo passo.
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