"Prendiamo una storia, una di quelle che rappresentano il nostro cavallo di battaglia e proviamo a raccontarla in maniera diversa". Questo l'invito di Daniela Mazzoli che ci annuncia anche quale potrebbe essere l'utilità di un tale esercizio di stile.
Esercizio per i prossimi giorni. Prendiamo una storia, una di quelle che rappresentano il nostro cavallo di battaglia, che abbiamo raccontato cento e mille volte ad amici, colleghi e parenti: il modo in cui abbiamo iniziato a lavorare, il giorno in cui abbiamo incontrato la persona più importante della nostra vita, la volta che abbiamo fatto quella brutta figura, quando abbiamo assistito a un episodio incredibile in sala d’attesa, la drammatica e ingiusta fine di una persona giusta e allegra. E proviamo a raccontarla in maniera diversa.
Scardiniamola, ignoriamola, incontriamola come si fa con un estraneo, uno che ci viene addosso mentre camminiamo tranquilli sul nostro lato della strada. Fermiamoci se ci rendiamo conto che dopo le prime due frasi stiamo per ricadere nel vecchio modello, che stiamo per rifare i commenti che sempre aggiungiamo arrivati a quel punto. Per aiutarci proviamo a dirla come farebbe nostra madre o nostro nonno, come farebbe la nostra fidanzata, o il nostro miglior amico. Proviamo a vedere che cosa succede.
Se l’esperimento funziona come dovrebbe, ci renderemo conto che la nostra storia non è soltanto una versione verosimile quanto parziale della realtà, ma che è una versione verosimile e parziale anche di noi stessi. Ci si abitua, col tempo, a costruire la propria identità come si fa con una deposizione al commissariato. Lo si fa magari presi dalla fretta di uscirne sani e salvi, innocenti, persino edificati in un autoritratto umano ma impeccabile. Lo si fa sotto la pressione dell’occhio inquisitore di un capitano di polizia, e anche se non siamo certi che le cose siano andate proprio come giuriamo e spergiuriamo, soprattutto a noi stessi, ci rendiamo conto, appena usciti di lì, che a quella deposizione saremo legati indissolubilmente.
Quella che rilasciamo al pubblico diventa la nostra vera verità. Ciò che è successo, dove, quando, gli sguardi, le intenzioni, i moventi. E noi che abbiamo detto o mangiato, con chi eravamo, quanto ci siamo rimasti, se c’entravamo, che idea ci siamo fatti della cosa. Ma a lungo andare, in qualche notte insonne, in uno di quei giorni in cui l’inquietudine fastidiosamente ci assale come il fischio di una zanzara a fine estate, quella versione ci tormenterà, non ci darà pace. Anche se continueremo a raccontarla come sempre, senza mai saltare un dettaglio, una circostanza, la battuta di spirito che pure l’accompagna. E forse, per sfuggire all’insofferenza, spediremo alla questura e ai giornali lettere anonime, per denunciare al sicuro e a posteriori, i nomi dei sospetti e dei mandanti.
Se la verità è una storia che si racconta, proviamo ad allargarla, a farla più ricca, più inclusiva e ampia. Imparare più storie dalla stessa storia, raccontarci da punti di vista inconsueti, forse ci insegnerà qualcosa di nuovo anche su chi siamo, su quanti siamo in questo corpo che – saggio com’è – può attuare continui cambiamenti e restare sè stesso.