"Un popolo che è pronto ad indignarsi, ad urlare ed a brandire le sue pentole, ma anche ad imparare e ad evolversi, adattandosi alle esigenze di un movimento per sua natura composito, inventando, di volta in volta, regole e modi di comunicare nuovi, apprendendo, ma anche creando e proponendo, forme alternative di partecipazione". Il racconto della prima assemblea degli 'Indignados' tenutasi nella Plaza Catalunya di Barcelona il 19 maggio scorso.
Il 19 maggio scorso, a pochi giorni dalle elezioni amministrative spagnole che avrebbero visto trionfare, praticamente ovunque, i conservatori del Partito Popolare, ricevetti un messaggio che recitava “Teneis que pasar por Plaza Catalunya, la cacerolada esta’ buenisima”. In quel momento avevo solo un’idea vaga di cosa stesse avvenendo in piazza e ignoravo completamente cosa fosse una “cacerolada”. Decisi comunque di seguire il consiglio della mia coinquilina ed avviarmi verso il cuore della capitale catalana.
Lo spettacolo che mi trovai dinnanzi una volta raggiunta la mia meta è difficile da descrivere o immaginare: non si trattava tanto di una piazza occupata, quanto piuttosto di un insieme di persone che si riappropriavano di un luogo che finora gli era stato negato o, forse, sottratto. Era una piazza stracolma di volti, colori ed odori. Cartelli, tende e striscioni. Era una piazza che riecheggiava del rumore incessante di migliaia di mestoli fatti vibrare su altrettante pentole e coperchi: simboli anch’essi di un’occupazione che aveva tutto il sapore di un ritorno a casa (da qui il nome di “cacerolada” ad indicare una manifestazione di protesta svolta percuotendo le “cacerolas”, ovvero le pentole).
Progressivamente, dopo una mezz’ora di incessante frastuono, con una tranquillità che non so ancora spiegare, le persone iniziavano a ricomporsi e a prendere posto, riponendo gli utensili da cucina e sedendosi a terra, con lo sguardo rivolto verso il centro della piazza. Erano circa le 22:30 di quel giovedì 19 maggio ed io mi apprestavo ad assistere alla mia prima assemblea de “l’acampada” di Plaza Catalunya.
Il contrasto fra il frastuono che ancora mi rimbombava nelle orecchie ed il silenzio a cui stavo partecipando in quel momento mi stupiva tanto da costringermi a controllare che la piazza non si fosse svuotata. In realtà, soprattutto grazie al passaparola, le persone continuavano ad accorrere numerose. Era una moltitudine eterogenea, in cui gli immigrati pachistani ed arabi si confondevano con gli indigeni catalani, ragazzi dall’abbigliamento stravagante sedevano affianco a vivaci coppie di anziani, persone qualunque si mescolavano tra loro, ognuno con la sua diversità.
La varietà di età, nazionalità, classe ed estrazione sociale era palpabile e si rifletteva nella difficoltà di scegliere il linguaggio con cui comunicare. Tanto più se si considera che qui siamo in Catalunya e l’autonomia linguistica, sopravvissuta ad anni di persecuzione franchista, è considerata una priorità irrinunciabile, culturalmente, ma anche e soprattutto politicamente. Di conseguenza coloro che si alternavano al centro della piazza prendendo la parola sceglievano di volta in volta il linguaggio con cui esprimersi, mentre, al lato, alcuni volontari traducevano i contenuti degli interventi ed una ragazza li mimava tramite il linguaggio dei sordomuti.
Tutto intorno la piazza era gremita di uomini e donne, compostamente seduti nel suolo, in silenzio. Gli applausi ed i brusii che occasionalmente interrompevano l’oratore di turno erano un evento raro: l’assenso o il dissenso si manifestavano attraverso il linguaggio dei segni. Il braccio alzato coordinato con una rapida oscillazione della mano indicava approvazione, le braccia incrociate ed i palmi chiusi disapprovazione, mentre il movimento rotatorio degli avambracci che bisognava passare oltre.
Il frastuono generato dalla “cacerolada” era ormai solo un ricordo coperto dall’attenzione silenziosa di chi vuole ascoltare per migliorare, ripartendo da quella piazza il cui unico proprietario, per diritto ma anche per dovere, era, e rimane, il popolo stesso. Un popolo che è pronto ad indignarsi, ad urlare ed a brandire le sue pentole, ma anche ad imparare e ad evolversi, adattandosi alle esigenze di un movimento per sua natura composito, inventando, di volta in volta, regole e modi di comunicare nuovi, apprendendo, ma anche creando e proponendo, forme alternative di partecipazione.
La grande forza di questo movimento è in effetti non tanto la sua carica distruttiva, quanto più la sua dirompente capacità di proporre nuove regole per convivere, nuove convenzioni per comunicare, nuovi punti di vista per osservare la realtà circostante. A tal proposito, basti pensare all’evoluzione che nelle settimane successive ha investito Plaza Catalunya trasformandola in una sorta di piccola città all’interno della metropoli.
Oltre alle micro-piazze sorte all’interno della piazza stessa (Piazza Palestina, Piazza Islanda e Piazza Tahir) è stato costruito un piccolo orto per assicurare almeno parzialmente l’auto-sostentamento degli accampati, sono nate delle commissioni di lavoro ad hoc, ognuna responsabile di una tematica specifica di interesse comune, sono stati organizzati turni di cucina e pulizia, spazi per la lettura e per l’intrattenimento dei bambini, predisposti i contenitori per la raccolta differenziata, organizzate le varie attività giornaliere (tra cui gruppi di discussione, corsi di vario tipo, dallo yoga al teatro, esibizioni di complessi musicali, etc.).
In tutto questo, ognuno ha avuto la possibilità di contribuire in qualche modo: alcuni hanno condiviso il cibo, altri hanno portato coperte e tende, altri ancora hanno partecipato regalando un pensiero, scrivendo una frase, proponendo una vignetta, inventando uno slogan o anche solo semplicemente ascoltando e agitando le mani (o incrociandole, a seconda dell’opinione che volessero esprimere). Plaza Catalunya è diventata così molto di più di quel ritrovo di esagitati, disperati o nullafacenti che ci è stato spesso presentato: è diventata un contenitore di idee, una fabbrica di pluralismo, una tavola di condivisione di esperienze e proposte.
Da quel 19 maggio sono ormai passati quasi due mesi, tante cose sono cambiate e il 'popolo del 15M' ha sperimentato sulla propria pelle le difficoltà insite nel cambiamento che si è riproposto di attivare. Da quel 19 maggio è cambiata la distribuzione del potere politico in Spagna e gli 'Indignados' hanno potuto fare poco o niente a riguardo. Poco dopo e in concomitanza con la finale di Champions League, la Generalitat catalana ha tentato invano di sfrattare gli accampati adducendo motivi di igiene pubblica, scontrandosi con la caparbietà degli indignati che, nonostante la violenza con cui ha agito la polizia locale, sono tornati poche ore dopo a riprendere il possesso della piazza.
Solo l’insostenibilità nel lungo periodo di una situazione comunque precaria ha fatto sì che l’assemblea collettiva votasse la fine dell’occupazione e lo spostamento della lotta, degli incontri e dei dibattiti nei vari quartieri, vere e proprie arterie di questa città così colma di contraddizioni.
La decentralizzazione delle attività non implica necessariamente la dispersione del movimento, anche se è evidente che questo stia subendo una trasformazione profonda. Una qualche forma di coordinamento centralizzato, seppure non ben definita, è stata mantenuta e periodicamente vengono indotte assemblee generali in cui confluiscono le proposte delle varie commissioni e delle assemblee di quartiere, nonché dei singoli cittadini.
Proprio tramite uno di questi incontri collettivi è stata convocata un'altra mobilitazione di massa, tenutasi mercoledì 20 luglio, alla vigilia dell’approvazione del bilancio catalano che prevede una serie di tagli ai servizi sociali, tra cui spiccano quelli riservati alla sanità pubblica. Con ogni probabilità, nemmeno una nuova invasione pacifica come quella a cui abbiamo assistito il 19 giugno (quando oltre 250.000 persone hanno marciato per le vie della città al grido di “non pagheremo la vostra crisi”) sarà sufficiente per indurre un cambio nella strategia del Parlamento Catalano, ma questo avrà in realtà un’incidenza relativa sulle sorti del movimento.
Il processo messo in moto a Madrid il 15 maggio è infatti per sua natura lento ed ha bisogno di tempo, pazienza e dedizione per poter ottenere risultati tangibili. Il lavoro da fare è ancora molto e non mancheranno errori, ripensamenti, contrasti e defezioni, ma questo non significa che un cambiamento radicale e profondo che investa la società e le sue strutture non sia possibile, significa solo che non sarà facile. Significa che bisognerà lottare per non farsi vincere dalla demoralizzazione. Significa che bisognerà continuare a costruire, a inventare e ad imparare. Significa soprattutto che questo è solo l’inizio e che non è ancora troppo tardi per indignarsi.
Fotografie di Luca Mineo