Sebbene la retorica scolastica sostenga che non è così, il valore del numero diventa per troppi il valore dell'essere umano. Ecco dunque che, così come a scuola è il voto degli alunni a misurare il loro valore, da adulti il valore di una persona viene valutato sulla base del suo stipendio.
“Quanto hai preso?”. È questa la frase che sento più risuonare tra i bambini e ragazzi che incontro in metropolitana, che vedo al parco e a casa di amici. I commenti dei genitori invece sono in genere di questo tipo: “Mio figlio ha tutti 10!”, “Quel disgraziato del mio a stento è arrivato al 6”, “La maestra ha puntato il mio bambino e gli ha messo solo 7”, “I professori hanno le preferenze e mettono i voti come gli pare, il mio poverino ha preso una sfilza di 4 e sarà bocciato”.
L’attenzione di molti è concentrata sui numeri, il valore del numero diventa per troppi il valore dell’essere umano, per quanto la retorica scolastica ci dica che non è vero, che non è l’individualità dell’alunno ad essere messa in discussione ma solo il suo operato. Annualmente si dibatte su quali esami e sistemi di valutazione possano garantire criteri oggettivi per i misurare i risultati degli alunni e se ancora non sono stati trovati forse è il caso di farsi una domanda sul perché. Io credo che in educazione si debba fare una scelta, l’alunno il valore se lo deve guadagnare o ce l’ha a prescindere? L’essere umano è o non è un capolavoro di inestimabile valore?
Da come risponderemo a questa domanda dipenderà il sistema educativo che andremo a scegliere ma non solo. Lavorando quotidianamente con l’amico Pierluigi Paoletti di arcipelago SCEC abbiamo visto come anche i sistemi economici dipendono da quale visione dell’uomo si abbraccia.
Questa devastante crisi ha avuto origine dall’esasperazione della competizione tra uomini, ridotti in schiavitù e costretti a lottare per sopravvivere. Un mondo che ci hanno con la menzogna convinto essere scarso di risorse, dove l’ingordigia di pochi impedisce l’abbondanza per tutti. Quando daremo valore all’essere umano, alle comunità e alla comunione tra popoli allora avverrà il cambiamento.
La paura è quella che senza voti i bambini sarebbero portati a non fare niente, che non sarebbero stimolati a dare il meglio, che si adagerebbero sul minimo, che sarebbero dei nullafacenti. Sono undici anni che insegno, tra scuola primaria e secondaria ed è arrivato il momento di fare outing: non ho mai dato voti.
I miei alunni hanno sostenuto esami di terza media, di idoneità alle elementari e ognuno con le proprie capacità e difficoltà li ha sempre affrontati e facendoli diventare bei ricordi. L’esperienza mi ha dimostrato che nella partita tra Inghilterra e Italia, tra Hobbes e Dante, tra “Homo homini lupus” e “Fatte non fin foste per vivere come bruti ma per seguir virtute e conoscenza” almeno lì abbiamo vinto noi a mani basse.
Se si rinuncia al voto, se si riconosce un valore a prescindere ad ogni alunno, se si ha fiducia in chi vive con te in classe tutti i giorni l’avventura del crescere e del superare i propri limiti, se nell’interiorità dell’insegnante è vivo il senso pratico e l’essere inseriti nel mondo, se la comunità è percepita come un organismo che ha bisogno di tutte le sue componenti per crescere allora si riesce a trasmettere ai ragazzi che è bene, bello e vero impegnarsi a dare il massimo per sé stessi e per il benessere di tutti. Per esprimere meglio questo concetto ci aiutano le parole del poeta Whitman:
“… che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso”
Se i ragazzi appiattiscono la loro esperienza scolastica nel voto, mettendo in secondo piano la meraviglia dell’apprendere, del fare, dello scoprire allora tradiamo la poesia, e con essa la nostra Umanità.
Nel mondo del lavoro, una volta descritta la propria professione chiunque alla fine ti dice con tono che muta a secondo dell’accento dialettale di provenienza: “Si, vabbé ma quanto ti danno?”, lo stipendio è il valore con cui troppo spesso si misura il valore degli adulti. Molto interessante, a proposito, lo spelling che mi fece il mio professore negli Stati Uniti della parola successo $U¢¢€$$.
La metamorfosi del voto è lo stipendio
In un mondo dove conta solo il risultato, dove per arrivare ad un voto molti si industriano più per trovare il modo di copiare che di imparare non ci si può stupire se poi per prendere uno stipendio si incorrono negli stessi mezzi illeciti.
Il voto da alunni è anche usato per affermarsi, per acquisire uno status di successo, di eccellenza oppure per sopravvivere, per passare l’anno, per potersi godere l’estate, per non dover combattere con genitori.
L’uso dello stipendio è per molti il medesimo, c’è chi riesce a stento a soddisfare i bisogni primari, chi con il sovrappiù va a compensare una vita stressante e insoddisfacente, chi agogna alla disumanizzante triade sesso, fama, potere.
Ogni insegnante dovrebbe conoscere così bene i propri alunni da potersi fare un’immagine per ognuno di loro. Un’immagine che sia ricca di sfumature, che parli sicuramente delle nozioni e facoltà apprese ma che vada anche a cogliere gli aspetti del carattere e delle relazioni, dei talenti espressi e quelli ancora in fase germinale. Un’immagine che vada intuire come sarà quell’essere umano in futuro, di cosa avrà bisogno per essere il tassello del gigantesco mosaico multicolore e multiforme che è l’Umanità.
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