Monteveglio, in provincia di Bologna, è la prima Transition Town italiana. Abbiamo incontrato Cristiano Bottone, vicepresidente del nodo italiano della rete di Transizione e tra i fondatori del primo Gruppo Guida a Monteveglio (BO), che ci ha raccontato la transizione di questo paesino sui colli bolognesi che è oggi il comune con più ambizioni 'Post Carbon' d'Italia.
Il fenomeno 'virale' delle Transition Towns arriva in Italia nel 2007: la storia di come tutto è cominciato suggerisce riflessioni a proposito di come si diffondano le innovazioni - chi le propone, chi aderisce, come, dove… e perché.
Curiosando tra le dinamiche del Movimento di Transizione, le sue storie e le persone che lo popolano, in Italia e nel resto d'Europa, ho scoperto un dettaglio interessante: quasi ovunque, dalla Germania all'Irlanda, da Carimate a Monteveglio, i primi ad entusiasmarsi per questo movimento locale-che-più-locale-non-si-può sono persone che abitano in un luogo diverso da quello da cui provengono. 'Stranieri', insomma, o forestieri, nel senso in cui si dice ancora in certe campagne, magari provenienti semplicemente da un'altra regione, o da un'altra città.
La mia impressione è che dietro questo piccolo fatto si nascondano due verità: la prima è che l'innovazione è spesso portata da individui che per storia personale, familiare o lavorativa si spostano molto, traghettando le idee da un luogo all'altro. La seconda è più sottile ed ha a che vedere con il desiderio di appartenere ad un luogo, a una comunità, a un paesaggio. Che in questi tempi di frammentazione è presente probabilmente in tutti noi, ma in alcuni si esprime con maggior forza che in altri.
Non mi stupisce più di tanto quindi venire a sapere che Cristiano Bottone, vicepresidente del nodo italiano della rete di Transizione e tra i fondatori del primo Gruppo Guida a Monteveglio (BO), è proprio una di queste persone.
“Quando sono arrivato a Monteveglio”, racconta, “ho passato quasi un anno a guardarmi intorno, cercando di capire le dinamiche sociali, chi fossero le persone e le associazioni più attive, influenti o partecipate”. Poi, ha raccolto quella che sembrava una buona idea, scovata nella grande rete, e ha tentato il trapianto nella sua nuova terra.
“Ho organizzato un incontro a cui ho invitato tutte le persone che avevo individuato, e lì ho raccontato come stavano funzionando le prime Transition Towns inglesi, cercando di immaginare come si sarebbe potuto tradurre l'idea in Italia. Tra le cose dette allora ce ne sono poche che sosterrei ancora adesso molte oggi le ho capite meglio e le spiego in modo molto diverso - le idee cambiano in corso d'opera, si arricchiscono, si riadattano secondo quel che accade, la realtà è flessibile e non smette di sorprenderti”.
E sorpreso Cristiano rimane anche quando, alla fine di quel primo incontro, chiede ai suoi concittadini di alzare le mani se sono interessati a formare un gruppo per far partire la Transizione a casa loro. “Io mi ero fatto un’idea precisa di chi sarebbero state le persone giuste per il gruppo… che invece se ne sono state immobili, mentre la mano l’hanno alzata degli altri. Questo mi ha insegnato una cosa importante: un gruppo dovrebbe scegliersi, non lo posso scegliere io”.
Forte di questa esperienza, Cristiano mi dissuade dal cercare le affinità elettive: “Molti mi scrivono perché vorrebbero formare un gruppo che si occupi di Transizione e non trovano nessuno, spesso perché stanno cercando, magari su internet, persone che già la pensano come loro, invece di cominciare a confrontarsi veramente con i propri vicini di casa o di pianerottolo”.
In quella prima fase del lavoro, il gruppo formato da Cristiano insieme a Claudio Meli, Umberto Fonda e Davide Pinelli, a cui poi si sono aggiunti Paolo Degli Esposti e Davide Bochicchio, ha lavorato soprattutto sulla propria consapevolezza, macinando testi e filmati, ma soprattutto incontrando persone competenti, su ogni argomento dello scibile 'trasizionaro', dalla Decrescita alla Permacultura al pensiero sistemico agli orti sinergici. Una fase di formazione resa più dinamica, divertente e agevole dal fatto di essere collettiva, fatta di un consistente e continuo scambio di informazioni da cui ha cominciato a scaturire un cambiamento.
“Si arriva quindi al momento delle elezioni comunali, quando nel nostro gruppo si è aperto un grande dibattito sull’opportunità o meno di lavorare all'interno della macchina amministrativa. Alla fine alcuni membri del gruppo hanno deciso di candidarsi, e se è vero che per mettere chiarezza tra i ruoli abbiamo deciso che chi entrava in politica non avrebbe potuto far parte del Gruppo Guida, abbiamo comunque continuato a lavorare insieme.
Anzi, quel che è più importante, le persone che sono poi state elette al Comune si sono portate dietro tutto il percorso che avevamo condiviso, preparando tra l’altro il programma elettorale con incontri aperti in modalità World Café. Applicare strumenti e metodi che vengono dalla Transizione ha significato aprire uno spazio politico nuovo.”
Si capisce allora come abbia potuto questo ambiente fertile di idee e contaminazioni incubare la nota “delibera di Monteveglio” (ne parlano pure gli inglesi) che fa del paesello sui colli bolognesi la città con più ambizioni 'Post Carbon' d'Italia.
Mentre in Comune si lavorava in questo senso, il Gruppo Guida ha seguito il percorso suggerito dal modello di Hopkins, tenendo numerosi incontri, cineforum ed invitando esperti in vari argomenti, per diffondere la consapevolezza tra la cittadinanza. Da qui sono nati progetti tematici, come il gruppo di acquisto per il solare termico ed il fotovoltaico, il lavoro sugli orti sinergici, la banca della memoria e così via. Due anni dopo, con la risonanza data anche dalla puntata sui limiti dello sviluppo di Report, Monteveglio è al centro dell'attenzione di molti che vorrebbero 'copiare' il suo modello.
“Ma attenzione, intanto Monteveglio non è un'isola felice, abbiamo appena cominciato, siamo la 'bandiera' della Transizione in Italia, per cui attiriamo energie ed iniziative, ma l'unica cosa veramente diversa rispetto ad altri posti è che qui abbiamo cominciato ad affrontare seriamente tutta una serie di argomenti, guardando in faccia le sfide per il futuro”.
Quando gli chiedo quali progetti suggerirebbe di replicare altrove mi stupisce, smontando i sacrosanti principi del benchmarking che mi aveva inculcato il mio professore di Marketing: “Le cosiddette buone pratiche non funzionano. Perché ogni luogo è veramente, profondamente, diverso dagli altri, quindi progetti e iniziative vanno cuciti addosso al posto in cui si sta. Si tratta di analizzare e interagire con una situazione pre-esistente; per questo se strumenti e metodi possono essere uguali per tutti, tuttavia le iniziative che nasceranno saranno tutte singolari e uniche, come funziona con i sistemi naturali. Replicare pigramente ciò che si sta facendo da altre parti non funzionerà mai, occorre ri-adattarsi di continuo. E se la fatica è tanta, sono anche tante le ricompense, l'entusiasmo, il divertimento e il senso di stare facendo qualcosa di profondamente sensato. Non so dire se funzionerà sempre, ma per ora vedo, intorno e dentro di me, che sta funzionando”.