Cinquecentomila persone hanno manifestato nei giorni scorsi nelle strade e nelle piazze di Madrid, dove si tiene la COP25, la Conferenza delle Parti sul clima, che si concluderà il 13 dicembre. «Governi immobili, troppi contrasti e resistenze» sostengono gli attivisti.
I manifestanti hanno stigmatizzato l’immobilismo dei governi di fronte alla crisi climatica. C'erano moltissimi giovani, affiancati da persone di ogni età provenienti da ogni parte del mondo che hanno marciato per quattro chilometri fra Atocha e Nuevos Ministerios.
Il corteo ha visto anche la partecipazione di una nutrita rappresentanza del popolo mapuche, che ha denunciato ancora una volta le violenze del governo cileno che in queste settimane presiede la Conferenza ONU sul clima, pur avendo rinunciato a ospitarla dopo la crisi politica innescata dalla rivolta della sua gente. Sul palco della manifestazione Greta Thunberg ha ricordato ancora una volta che «non abbiamo più tempo per rispondere alle sfide che il clima ci pone davanti», ma ha lasciato i dimostranti con un messaggio positivo: “il cambiamento è già in atto”, che piaccia o meno a chi detiene oggi le leve del comando.
Proseguono intanto con intensità e vivacità incontri, conferenze, laboratori e dibattiti alla Cumbre Social, il controvertice che si tiene all’Università Complutense dai movimenti sociali, con la partecipazione degli studenti e delle organizzazioni ambientaliste. All’inaugurazione i rappresentanti dei popoli indigeni dell’America del Nord, quelli dell’Amazzonia Brasiliana e del popolo Mapuche hanno intonato canti in omaggio al cosmo e alla madre Terra. Lottano per conservare spazi di esistenza e comunità nei territori più incontaminati del pianeta e sono molti tra i rappresentanti di governi e ONG a farne menzione e a parlare dell’antico sapere indigeno come una fra le strade possibili per combattere la crisi climatica attraverso le cosiddette “nature based solutions” (soluzioni basate sulla natura), misure che comprendono l’uso più sostenibile del suolo, dell’acqua, il ripristino degli ecosistemi a rischio.
I popoli indigeni restano però diffidenti. All’incontro fra i governi e la società civile, Jamene Yazzie, dell’International Indian Treaty Council, lo ha detto chiaramente: “Sono sempre di più i non indigeni che parlano di noi e per nostro conto. Noi siamo qui, per i nostri figli e per i nostri avi, sappiamo di avere risposte a questa crisi: se le accettate anche voi significa che state ammettendo che il modello di sviluppo estrattivo promosso fino ad oggi è sbagliato. Se invece cercate di utilizzare i nostri saperi per inserirli in soluzioni basate sul mercato, per noi è inaccettabile”.
Prosegue intanto la trattativa sotterranea per giungere a definire un sistema di contabilizzazione comune, in modo da poter fare il monitoraggio globale dei progressi dei vari impegni presi dai singoli paesi.
Grossi contrasti paiono però esserci aull'articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che apre alla possibilità di creare un mercato globale del carbonio sul quale scambiare quote di emissioni. Questo sistema è stato chiesto fortemente dal Brasile, a comporta grossi rischi per le scappatoie che potrebbero esservi inserite. Un paese potrebbe ridurre le emissioni investendo in progetti, tecnologie e impianti a basso impatto e potrebbe poi vendere quelle riduzioni a un altro paese meno virtuoso, che pagherebbe per poterle conteggiare nel proprio impegno in modo da non risultare inadempiente. Ma questi meccanismi si sono già rivelati inefficaci e spesso dannosi.
Si teme per l'ennesimo accordo al ribasso.