Erica Chenoweth è una studiosa e ricercatrice statunitense che da molti anni si occupa della tematica relativa alla risoluzione dei conflitti ed è considerata a livello mondiale una delle maggiori esperte sull’argomento. Purtroppo poco conosciuta in Italia, recentemente è stato pubblicato il suo libro “Come risolvere i conflitti senza armi e senza odio con la resistenza civile”, grazie alle Edizioni Sonda. Questa casa editrice, nata oltre trenta anni fa a Torino, spiega le motivazioni del proprio agire nella sua bella presentazione: “Ci occupiamo di quel momento magico in cui nella vita le cose cominciano a cambiare in meglio. Per questo i temi che ci stanno a cuore sono i diritti civili e l’internazionalismo, la sostenibilità ambientale e i diritti animali, l’educazione libertaria e creativa, il benessere e lo stile di vita green”.
La pubblicazione della Chenoweth è eccezionale sia per l’importanza in sé dell’argomento, sia per il lavoro di ricerca che si può ben definire monumentale; studiare infatti tutte le rivoluzioni violente e non violente dal 1900 al 2019 è veramente una impresa notevolissima che anche solo per l’impegno profuso merita di essere letta. E visto che soprattutto sulla effettiva efficacia della nonviolenza come metodo di protesta ci sono moltissime perplessità e dubbi, l’autrice ha messo insieme un centinaio di domande alle quali risponde accuratamente su tutti i pregiudizi in questione. Il libro ha infatti l’obiettivo di dimostrare che le rivoluzioni nonviolente hanno in media più successo ed efficacia di quelle violente. Non è certo impresa facile accettarlo mentalmente, perché indottrinati scolasticamente a pensare ad una storia che ci racconta una sequela ininterrotta di guerre e massacri e quindi l’uomo non possa fare altro che ricorrere alla violenza per risolvere i conflitti. In questa storia a senso unico che ci viene insegnata, si vedono gli esempi di Gandhi e pochi altri come episodi, miracoli che non sono certo la prassi. Invece la Chenoweth dimostra, dati alla mano, che questi non sono né miracoli, né casi isolati; non solo, dimostra anche che il decennio dal 2010 al 2020 ha visto più rivoluzioni non violente di qualsiasi altro periodo storico di cui si abbia una qualche documentazione scritta.
Interessante poi notare la definizione da lei data della “legge del 3,5%” per la quale quando una tale percentuale di popolazione è coinvolta in maniera attiva e impegnata con metodi nonviolenti, la vittoria ha altissime percentuali di verificarsi. L’autrice porta tanti studi e testimonianze a supporto delle sue tesi e una di queste è un po’ l’emblema di chi fa valere il cervello rispetto alla forza bruta e può essere riassunta nella frase geniale dello storico americano Howard Zinn:” Loro hanno le armi, noi abbiamo i poeti. Quindi vinceremo noi”.
Si tenga poi presente che il potere si basa quasi sempre sull’esercizio della violenza e infatti cerca sistematicamente di infiltrare i vari movimenti di protesta per spingerli a compiere atti violenti che poi possano giustificare la repressione e portare le proteste nel campo in cui il potere si muove meglio, appunto quello della violenza, dove ha forze e apparati che può scatenare a suo piacimento.
Seguendo questo schema collaudato, addirittura alcune guerre si fanno “sperando” che i nemici compiano atti violenti (o in qualche modo spingendo a commetterli) che possano poi “giustificare” risposte spropositate che arrivino anche a compiere opere di sterminio.
Cadere quindi nel tranello della violenza (soprattutto nei paesi cosiddetti “avanzati”, dove i modi di opporsi al potere non violenti sono molti di più e molto più efficaci di quelli violenti), è il più grande favore che si può fare al potere costituito.
La parte finale del libro è il lungo elenco di sollevazioni popolari di oltre un secolo, dove si verifica immediatamente quali sono quelle che hanno avuto successo fra violente e non violente a livello mondiale e ci si rende conto della situazione reale, che sorprende per la sua portata di speranza soprattutto nei confronti di chi crede che l’unica modalità sia massacrarsi a vicenda o minacciarsi con ordigni sempre più letali. Consigliamo quindi vivamente la lettura del libro riassumendo i punti focali delle cinque cose che, come scrive l’autrice, tutti dovrebbero sapere sulla disobbedienza civile:
1) La resistenza civile è un’alternativa realistica e più efficace alla resistenza violenta nella maggior parte dei contesti. La resistenza civile non ha nulla a che fare con l’essere gentili o educati, ma fa riferimento alla resistenza radicata nell’azione comunitaria. Significa ribellarsi e costruire alternative nuove attraverso l’utilizzo di metodi che siano più inclusivi ed efficaci della violenza.
2) La resistenza civile non agisce toccando il cuore dell’avversario ma generando defezioni nella base di supporto del suo potere
3) La resistenza civile implica molto di più della semplice protesta, include metodi di non cooperazione, come gli scioperi, e la creazione di nuove realtà, come le organizzazioni di mutuo soccorso, sistemi economici e gruppi politici alternativi, permettendo alla gente di sperimentare una vita diversa sotto un nuovo sistema.
4) Nel corso degli ultimi cento anni la resistenza civile si è dimostrata molto più efficace della resistenza armata, sia nell’introdurre importanti cambiamenti nel tessuto sociale, sia nel promuovere il processo di democratizzazione, e lo ha fatto senza causare nel frattempo crisi umanitarie a lungo termine.
5) Anche se la resistenza nonviolenta non ha sempre successo, funziona molto meglio di quanto i suoi detrattori vogliano farvi credere.