Non siamo degli imprevidenti: l’orto è recintato da una bella rete fitta e alta, per tenere al sicuro il nostro cibo da caprioli, cinghiali, istrici. Di solito sono loro le minacce per insalate, bietole, pomodori, cavoli, cetrioli. Ma questo è un anno speciale, nel centro della Toscana: l’erba è seccata prima di crescere, le rondini qui da noi non sono arrivate e scarseggiano in tutti i dintorni, e anche i tassi si dedicano al saccheggio dell’orto, se non altro perché è l’unico luogo dove riescono a scavare la terra e a trovare larve e lombrichi. E la rete non basta. Istrici e tassi scavano come forsennati sotto la rete, benché questi terreni siano duri e pietrosi come pochi (l’orto fa eccezione grazie a cacca di cavallo e a pluridecennali pacciamature), e i cinghiali sfondano la rete (robusta, elettrosaldata, retta da robustissimi pali) con la forza della disperazione. Perché? Saranno anche loro dei catastrofisti. Per questo si sono convinti che non ci sia nulla da mangiare nei boschi e nei campi inariditi, e nemmeno lungo le rive dei fiumi.
Anche perché i fiumi non ci sono più, e quei catastrofisti di pesci, girini di rane e di rospi, larve di libellule ecc. si sono seccati assieme ai fiumi. Le zanzare, no: alle loro larve bastano dieci centimetri quadrati di acqua fangosa per riprodursi, e lo fanno felicemente in assenza dei loro predatori naturali, libellule e rane e rospi e pesci.
Non piove, in quella parte d’Italia che, secondo i climatologi, a causa del riscaldamento del pianeta, rischia la desertificazione. E piove poco anche nel resto d’Italia.
Il Po non è più un fiume navigabile, e in alcuni punti non è neanche più un fiume. Ma solo i catastrofisti riflettono sul fatto che dentro un fiume vivono migliaia di creature, e muoiono assieme a lui. Quanto al nostro cibo, che senza acqua non cresce (anche i becerottimisti potrebbero riflettere sul fatto che ci cibiamo di creature viventi, vegetali e animali, e che tutte, dalle erbe ai manzi, hanno bisogno di acqua), oltre ai catastrofisti se ne accorgono gli agricoltori, che gridano “Aita!”. E hanno ragione a gridarlo, almeno quelli che l’aiuto se lo meritano. Perché chi sparge pesticidi a gogò con trattoroni grandi come ville di due piani, chi usa lo scavatore per piantare le patate (non sto scherzando), chi diserba le prode dei canali (in tutta la pianura padana, in primavera, lo si vede anche dal treno) è tra le cause del suo mal e pianga sé stesso.
Ma, come ha detto un signore siciliano intervistato dal giornale radio a proposito degli incendi che divorano il sud Italia (e anche la Toscana, come al solito), “Con le calamità c’è chi resta in mutande e chi le mutande se le fa d’oro”. Catastro-complottista!
L’Italia brucia. Per la siccità, per il caldo e per gli incendi. I pochi e limitati appiccati dai cretini che buttano il mozzicone dall’auto o fanno il barbecue nelle pinete, i molti ed estesi appiccati di proposito da criminali per gli interessi o i ricatti delle mafie.
L’Italia brucia tutti gli anni e non ci sono i mezzi antincendio, mancano elicotteri e canadair, la guardia forestale è stata sciolta (come mai?), le guardie provinciali, che operavano sul territorio di ogni provincia e si occupavano in particolare, anche se non solo, di reati ambientali, sono diventate “guardie regionali”; le guardie ambientali volontarie, che prima dipendevano dalla Provincia, oggi aspettano ancora di sapere da chi devono dipendere e cosa possono fare (come mai?). Del resto, diciamoci la verità, visto che la maggior parte dei reati ambientali è stata ormai depenalizzata, a cosa servono tutti ‘sti controlli sul territorio.
Però, non siamo catastrofisti! Di fronte alla siccità e agli incendi i responsabili delle nostre istituzioni si preoccupano di rimediare in futuro. Come? Facendo tante belle dighe e dighette sui fiumi che non ci sono più.
I fiumi non ci sono più ma cemento ce n’è in abbondanza. Noi siamo il paese del cemento, abbiamo il primato mondiale della cementificazione, siamo una specie di lombrichi al contrario: mentre quelle infime ma nobili creature mangiano la cacca e la trasformano in buona terra, i governi, gli amministratori, le imprese “costruttrici” del nostro paese mangiano la buona terra e la trasformano in m… (e non dimentichiamoci che la più grande multinazionale made in Italy è l’Impregilo, una delle aziende più inquisite del nostro paese, se va avanti così arriverà al record di un’inchiesta all’anno, per ora mi pare siano una ogni due anni o giù di lì, potete controllare anche voi, basta digitare su Internet “Impregilo inchieste”, ma comunque continua a lavorare in tutto il mondo con le sue grandi opere e questo ci dice chi governa il nostro mondo globalizzato).
Per tornare all’Italia, non ce n’è quasi più di buona terra, soprattutto nelle pianure e nelle valli, dove è più facile trasformarla in cemento e asfalto. Inoltre, gli italiani cominciano ad essere un po’ critici sull’asfalto e cemento. Meglio tardi che mai ma sarebbe stato meglio prima che tardi.
Perché dunque non cementificare l’acqua?
Quest’idea geniale dovevano covarla da tempo, i nostri governanti e amministratori (qualcuno deve avergliela suggerita e siamo tutti capaci di immaginare chi), e aspettavano solo il pretesto per tirarla fuori dal cilindro. Ma come prestigiatori sono maldestri: il coniglio è già morto e puzza, e l’odore di marcio si sente da lontano. Pensate che, prima che gli “allarmi siccità” arrivassero agli onori dei nostri media, l’assessore regionale toscano, in un’intervista alla Nazione, aveva già preannunciato una grande diga sul Merse per far fronte agli incendi: perché non c’erano abbastanza invasi dove gli elicotteri (che non ci sono) e i canadair (che non abbiamo) potessero rifornirsi d’acqua per spegnere gli incendi toscani. Ma in Toscana abbiamo già due grandi dighe, più tanti piccoli invasi e, se non fosse già sufficientemente ridicolo il pretesto e il contesto, dovete sapere che il fiume Merse è così grande che a scuola non l’avete studiato, e che un pescatore di lenza che la lanciasse con troppo slancio potrebbe impigliarla tra i cespugli della riva opposta. In compenso, la valle del fiume Merse è uno dei rarissimi luoghi in Italia in cui la natura la fa ancora da padrona, è coperta di boschi inframmezzati da piccoli campi ed è in parte riserva naturale.
A questo punto potete mettervi a piangere o a ridere, tutti e due gli atteggiamenti sono adeguati, dipende dalla vostra indole e dal fatto che prevalga la rabbia o lo sconforto.
Ma comunque sono arrivati gli “alti lai” della Coldiretti e con essi un pretesto migliore. Abbiamo bisogno di irrigare i campi anche quando non c’è acqua. Alle dighe, alle dighe! È stato il grido di guerra dei Consorzi di Bonifica. Altri carrozzoni del malgoverno nostrano, che dovrebbero fare gli interessi pubblici ma, come è d’uso, fanno gli interessi privati, e di che privati! Che non bonificano nulla, tantomeno i fiumi ridotti a fogne e discariche, ma che danno in appalto la “ripulitura delle sponde” alle “imprese forestali aziende del legname proprietari centrali a biomasse” (e sì, molto spesso sono tutto questo le intraprendenti imprese “ripulitrici”). Che ripuliscono le rive dei fiumi da pioppi, ontani, salici. I frigoriferi e i lavandini vecchi, oltre alle altre innumerevoli sozzure che il popolo di Dante e Petrarca (chi sono costoro?) e delle “chiare, fresche, dolci acque” vomita in ogni scarpata, quelle rimangono a imperitura memoria.
Come si distrugge uno stato, una società, una nazione? Cominciando dalla sua casa: la terra, le piante, le acque. Il resto è più facile, viene da sé. Chi non difende la terra in cui vive, forse difenderà i suoi interessi particolari, corporativi, personali o di categoria. Ma sarà appunto una categoria, al massimo, a lottare. Non un popolo, nemmeno una parte del popolo.
A meno che… a meno che non ci svegliamo dall’incantesimo e, invece di mandarci e rimandarci messaggi digitali e “comunicare” le nostre frustrazioni su questa o quella rete sociale che ci tiene intrappolati, ricominciamo a uscire, discutere, dibattere, manifestare, distribuire volantini, informare davvero chi non sa, mobilitare chi altrimenti non si muoverebbe, scendere in piazza, gridare sotto le finestre dei prestigiatori di turno che abbiamo scoperto il trucco e che lo spettacolo è finito.
Sarà il suono di un flauto
a echeggiare nelle vallate
a darvi un brivido
a farvi credere
che il tempo
non sia passato
e che sia un sogno
la vostra vita.
Avanzano e hanno
cadenze strane
straniere ai vostri cuori
che non sanno più danze
più canzoni
solo paura
e smisurato orgoglio.
Avanzano
e trema l’aria morta
e battono i tamburi
spalancano le porte.
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