di
Francesco Bevilacqua
30-01-2013
Sostenibilità ed eticità, in particolare nel settore alimentare, sono le parole chiave dell’importante evento fieristico che si terrà a Milano fra due anni. Peccato che alcuni fra i principali sponsor della manifestazione perseguano da anni politiche aziendali del tutto incompatibili con questi propositi
“Nutrire il pianeta – Energia per la vita” è lo slogan di Expo 2015. Attraverso questo motto l’importante kermesse fieristica milanese prevista per il semestre maggio-ottobre 2015 sembra quindi puntare con decisione su tematiche oggi determinanti, come l’accesso alle risorse, la sovranità alimentare, la sostenibilità del sistema produttivo e così via. Si tratterebbe certamente di una posizione nobile e condivisibile, se non fosse macchiata da alcune gravi contraddizioni che suscitano istintivamente molti dubbi.
Anzitutto – perdonate l’apparente pignoleria, ma in un’epoca in cui lo scontro riguarda prima di tutto le parole e il modo di esprimersi ci tengo a fare questa sottolineatura –, ricompare prepotentemente l’idea di “sviluppo sostenibile” già a suo tempo analizzata da diversi pensatori, primo fra tutti Serge Latouche, che hanno evidenziato la natura paradossale di questa espressione, poiché uno sviluppo potenzialmente infinito su un pianeta costituito da risorse finite è semplicemente e logicamente impossibile.
Sicurezza e qualità alimentare sono i macro temi dell’Expo, suddivisi in diverse sottoaree che vanno da scienza e tecnologia a innovazione della filiera, da alimentazione e stili di vita a cooperazione e sviluppo. Tutto è coordinato da un comitato scientifico di venti personalità, esperti degli argomenti oggetto di dibattito. A una prima occhiata, nonostante le premesse “semantiche” tradiscano un approccio non innovativo e tipico dell’ambientalismo istituzionale, le intenzioni sembrano comunque buone, poiché è innegabile che la natura della crisi sistemica che stiamo vivendo in questi anni è anche, forse soprattutto, di natura alimentare e di accesso alle risorse in generale.
Al di là del tenore e dei contenuti che si svilupperanno quando i partecipanti – istituzioni, imprese, società civile, organizzazioni – si siederanno intorno ai tavoli di Expo 2015, c’è una cosa che già adesso, due anni e mezzo prima del taglio del nastro, fa storcere il naso. Nel corso della campagna promozionale della manifestazione, si sta attribuendo infatti grande importanza alla collaborazione con i partner che decideranno di partecipare.
Ecco come viene presentata l’opportunità di adesione sul sito ufficiale: «Official Global Partners: aziende le cui attività e i cui valori siano intrinsecamente legati al tema dell’Expo, che contribuiscano allo sviluppo del tema e godano di un’esclusiva settoriale a livello mondiale, nonché aziende che sviluppino i principali servizi e tecnologie dell’Expo a sostegno dell’innovazione e sostenibilità dell’evento».
Oltre ai vantaggi commerciali che le aziende potranno trarre quindi – visibilità, accesso a importanti network, coinvolgimento in processi decisionali e progettuali futuri –, viene prospettata anche l’imperdibile occasione di lasciare il segno portando la propria esperienza e presentando l’attività aziendale nel campo della sostenibilità, dell’etica e dell’impegno sociale. Ma quali sono le imprese in questione, quali gli esempi virtuosi che costituiranno il biglietto da visita di Expo 2015?
Qui casca l’asino: fra gli Official Global Partners, il più prestigioso dei tre livelli di partenariato offerti, figurano alcuni nomi che cozzano decisamente con le premesse poste. Primo fra tutti quello di Enel. La politica aziendale del colosso energetico italiano rimane discutibilmente fondata sulle fonti fossili, che non rappresentano certo una garanzia di sostenibilità per le generazioni future. Anche la politica di green energy è caratterizzata da inaccettabili contraddizioni, come testimonia la recente vicenda degli impianti idroelettrici che Enel ha avviato in Sud America, come quelli del Cotzal in Guatemala e di Palo Viejo, gravati da un impatto ambientale devastante e da una politica dispotica nei confronti delle popolazioni locali.
D’altronde, è già da un po’ di tempo che organizzazioni attive nel campo della tutela dell’ambiente hanno portato alla luce le carenze della linea della multinazionale controllata al 30% dallo Stato italiano. Secondo uno studio di Greenpeace, per esempio, il 40% della produzione energetica di Enel deriva dal carbone. I 2,5 miliardi di euro stanziati per la conversione a carbone della centrale di Porto Tolle non fanno altro che confermare l’incompatibilità dell’ente energetico con i presupposti di sostenibilità ed etica di Expo 2015 di cui, nonostante ciò, è partner ufficiale.
Così come lo è Accenture, che se dal punto di vista ambientale non ha grosse macchie nel curriculum, da quello etico non è ceto irreprensibile. Multinazionale americana del settore consulenza aziendale, è stata oggetto di forti pressioni per via della decisione di stabilire la propria sede nel paradiso fiscale delle Bermuda. Da un paio d’anni, a seguito di tali pressioni, l’azienda ha deciso di spostarsi, scegliendo però come nuova casa l’Irlanda. Non un paese a caso, dato che Dublino offre interessanti escamotage dal punto di vista fiscale.
Nella storia recente di Accenture pesa anche la partecipazione allo scandalo Enron – colossale multinazionale energetica americana protagonista di un disastroso crac che nel 2001 condusse migliaia di risparmiatori sul lastrico e decine di dirigenti in galera –, in cui fu coinvolta la compagnia progenitrice Arthur Andersen – fu proprio per questo che Accenture decise di abbandonare il suo vecchio nome: Andersen Consulting.
Sempre fra gli Official Global Partner figura Finmeccanica, che attraverso le sue numerose controllate – i vari dipartimenti regionali, Augusta, Ansaldo, Oto Melara, DRS e così via – è uno dei marchi più in vista nel settore degli armamenti, un’attività non certo giustificabile dal punto di vista etico e morale. A questo si aggiunge il teatrino tipicamente italiano che sta animando i vertici aziendali da alcuni mesi a questa parte e che sarà sicuramente un tema caldo della campagna elettorale, in cui il primo attore è il presidente e amministratore delegato Giuseppe Orsi, attualmente indagato per corruzione internazionale.
Oltre ai “Worldiwide Partners” principali, Expo 2015 può contare anche su una serie di event sponsors, aziende che hanno legato il proprio marchio alle iniziative collegate alla manifestazione fieristica. Fra essi, alcuni paiono molto vicini, per quando riguarda le ombre sulla loro politica aziendale, agli altri partner già citati.
È per esempio il caso di Rio Mare, brand della multinazionale dell’alimentazione Bolton Group. Il famoso marchio di tonno è stato oggetto di una campagna di Greenpeace finalizzata a classificare le aziende del settore in base alle tecniche di pesca del tonno e alla loro sostenibilità. Grazie alla pressione esercitata, Bolton ha ridefinito la propria politica, che prima non prevedeva alcun disciplinare ambientale o etico. Adesso, il gruppo sostiene che il 45% della propria produzione è frutto di metodi di pesca sostenibile (senza l’utilizzo di FAD) e promette che entro il 2017 questa quota raggiungerà il 100%. Fatto sta che il risultato – tutto da verificare e comunque solo parziale – non è stato frutto di una responsabile presa di coscienza, ma di una denuncia pubblica da parte di un ente terzo. Rio Mare è sponsor dell’iniziativa di Expo “Best Food Generation – Nutrizione e varietà”.
All’evento “A scuola con Expo” ha invece deciso di legare il proprio nome Nestlè. In questo caso la contraddizione sfiora il grottesco e farebbe sorridere se non si stesse parlando di fatti tremendamente seri: una manifestazione che pone come temi principali la sovranità alimentare, la riduzione della forbice nord-sud, la tutela del diritto al nutrimento viene sponsorizzata da una multinazionale dell’industria alimentare che ha un passato costellato di soprusi e azioni condannabili (e spesso condannate) proprio in questi ambiti.
Per esempio, Nestlè ha infranto più volte il Codice internazionale varato dall’OMS in merito alla somministrazione di latte in polvere ai neonati. È stata coinvolta in azioni legali contro paesi come Etiopia e Venezuela, in cui fame e povertà sono una drammatica realtà, e in scandali sempre riguardanti il surrogato del latte materno in Gabon e nelle Filippine. Inoltre, è simbolo e fautrice di quella globalizzazione della cultura alimentare responsabile della perdita delle tradizioni gastronomiche che proprio la fiera milanese si propone di salvaguardare e rivitalizzare.
Non voglio trascinare Expo 2015 in un processo alle intenzioni, ma è indubbio che, viste le premesse, l’organizzazione possa essere accusata quantomeno di grave incoerenza. Ciononostante, l’auspicio rimane che non si tratti dell’ennesimo caso di green washing da parte di istituzioni e multinazionali e che, a dispetto dell’inopportuna e ingombrante presenza dei marchi a cui si è accennato, la kermesse si possa rivelare un contesto in cui queste fondamentali tematiche possano essere davvero poste in maniera efficace e imparziale all’attenzione del mondo.