di
Andrea Degl'Innocenti
05-08-2011
Sulla scia delle notizie finanziarie catastrofiche e catastrofiste delle ultime settimane, l'analisi delle vicende internazionali guardate con altri occhi: il naufragio di gusci ormai vuoti, pesanti involucri privi di contenuto. Da sempre le crisi finanziarie – necessarie al sistema capitalista per rigenerarsi – hanno portato a situazioni di ingiustizia. Oggi qualcosa sta cambiando.
Nel 1600 l'Olanda era una potenza commerciale senza eguali e possedeva una flotta potentissima. Molti dei pittori fiamminghi figli di quell'epoca si erano specializzati nel dipingere ampie tele molto particolareggiate che raffiguravano con toni epici le battaglie navali. Navi smembrate, fiamme che divampano dalle stive, corpi che schizzano in aria a formare strani ghirigori. Quei quadri avevano una funzione prevalentemente celebrativa. A riguardare oggi le carcasse degli imponenti vascelli, delle eleganti fregate, l'impressione è tutt'altra: piuttosto che ad un'apologia della potenza olandese sembra di assistere all'allegoria della situazione economica mondiale.
Il primo vascello, quello in primo piano, è sicuramente americano. L'economia che per anni si è posta alla guida del mondo, considerata da sempre la più solida in assoluto, la regina delle triple A delle agenzie di rating, sta dimostrando di colpo la propria intrinseca fragilità. La questione del tetto del debito, che ha lasciato il mondo per giorni col fiato sospeso, non è che l'ultima di una serie criticità sistemiche che hanno portato al collasso un intero sistema. Prima ancora di essa ci sono la crisi dei consumi e la privatizzazione spintasi fino all'interno dell'apparato governativo.
Il calo dei consumi ha avuto, e continua ad avere, un effetto devastante all'interno del sistema economico americano che, come non ha mancato di notare Bauman in vari saggi, da ormai diversi anni ha compiuto la storica transizione da società di produttori a società dei consumatori. Per società dei consumatori il sociologo polacco intende un modello sociale che – per la prima volta nella storia – investe ogni individuo membro più nel ruolo di consumatore che in quello di produttore.
Si capisce dunque come la crisi dei consumi americani – crollati sul finire del 2008, poi rimbalzati lievemente verso l'alto ed ora tornati a scendere – abbia avuto conseguenze profonde non solo dal punto di vista finanziario, ma sull'intero sistema che si basa su quel paradigma. Già da tempo gli americani avvertono con forza la necessità di un cambiamento drastico ed è sempre più percepita l'urgenza di celebrare i funerali di un modello sociale basato su neoliberismo e consumismo. Tale urgenza era sfociata sul finire del 2008 in una partecipazione senza precedenti alla elezioni presidenziali conclusesi con la vittoria di Obama.
L'entusiasmo sorto intorno alla figura del nuovo presidente era dovuto alle istanze di cambiamento – alcune piuttosto radicali per la società Usa – da questo proposte. Il perché questi germogli non abbiano attecchito lo spiega Naomi Klein in un recente articolo per il Guardian apparso sull'Internazionale in occasione del decennale del G8 di Genova. L'autrice di No Logo definisce quella di Obama “una delle campagne di rebranding più efficaci della storia”. L'uomo della speranza ha preso in mano un marchio Usa piuttosto sgualcito e maltrattato dalla gestione Bush e l'ha trasformato nuovamente in un prodotto vendibile. Gli Stati Uniti spacconi e guerrafondai incarnati alla perfezione dal burbero texano e tanto detestati in Europa e nel mondo sono stati trasformati nel giro di una campagna elettorale nell'America pacifista e green di Obama.
Ma a questo cambiamento d'aspetto, purtroppo, non ha corrisposto nessuna modifica nella sostanza. Nei fatti l'amministrazione Obama ha proseguito la politica estera aggressiva del predecessore, ha autorizzato trivellazioni negli oceani e non ha ridotto il tetto delle emissioni nocive, ha pianificato la costruzione di nuove centrali nucleari. Il fatto è che quel logo nazionale sgualcito non era l'unica pesante eredità lasciata dall'amministrazione Bush.
Al pari di molte grandi aziende che hanno chiuso le proprie fabbriche ed appaltato la produzione concreta delle merci ad altre ditte, limitandosi ad incarnare dei valori – la Klein cita come esempio la Nike e la Apple, ma è pratica diffusa fra tutte le multinazionali –, l'amministrazione Bush ha svuotato di ogni potere l'apparato governativo, subappaltando ai privati ogni aspetto della gestione dello Stato, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence. L'America ereditata da Obama, dunque, non era che un guscio vuoto, un involucro da riverniciare con nuovi colori ma il cui contenuto era stato già svenduto da tempo a lobby private.
L'impotenza di Obama è emersa con ogni evidenza dall'accordo per evitare il default. Il Presidente ha ceduto a tutte, o quasi, le richieste delle lobby: il tetto massimo del debito è stato innalzato per la 74esima negli ultimi cinquant'anni, la decima dal 2001, senza aumentare di un centesimo le tasse per i più ricchi.
Ma accanto al decrepito barcone americano riverniciato a nuovo che cola a picco, ve n'è un secondo che sembra destinato a fare la stessa fine. È il vascello cinese, la fabbrica del mondo, che con la propria produzione fa da contraltare al consumismo degli Usa, dei quali, per altro, possiede buona parte del debito.
La Cina è stata negli ultimi anni la patria ideale del nuovo capitalismo: “libertà per il capitale e uno Stato che fa il 'lavoro sporco' del controllo dei lavoratori” per citare Il filosofo sloveno Slavoj Zizek. Un capitalismo, quello cinese, che ha sacrificato all'altare dello sviluppo e della crescita sfrenata ogni attenzione per l'ambiente o per i diritti dei lavoratori.
Ma anche gli ingranaggi del colosso orientale sembrano essersi inceppati. Svariati problemi affliggono l'economia cinese: l'urgenza di sviluppare un mercato interno per far fronte alla crisi delle esportazioni, l'esplosione della bolla immobiliare, le crescenti rivendicazioni dei lavoratori ed il conseguente aumento del costo della manodopera.
Se i primi due punti possono considerarsi congiunturali alla crisi economica in atto, il terzo rappresenta forse il rischio maggiore in chiave futura. Le rivolte scoppiate nella provincia di Guandong – che da sola rappresenta circa un terzo delle esportazioni cinesi – hanno visto il governo centrale cedere alle richieste di lavoratori ed acconsentire ad una serie di aumenti salariali.
La reazione delle aziende che avevano impiantato in Cina i propri mezzi di produzione è stata immediata. È indicativo l'esempio riportato dal seguito blog spagnolo La Haine: la Foxcom International Holdings, la maggiore produttrice mondiale di prodotti elettronici (iPhone e iPad per Apple, i dispositivi Dell, fra gli altri) ha da poco annunciato lo spostamento delle fabbriche dalla Cina al Brasile. Molti altri produttori si stanno spostando verso la più vicina Indonesia; è in atto il tipico processo di osmosi del capitale da paesi dove la manodopera è più cara verso paesi dove lo è di meno.
Chi manca all'appello? Ovvio, il vascello europeo, che ha rivolto le bocche dei cannoni verso l'interno dell'imbarcazione ed ha iniziato a sparare. I chiodi arrugginiti che lo tenevano assieme sono saltati alla prima cannonata. Troppe le differenze che separano la locomotiva tedesca, attualmente l'unica economia florida a livello mondiale – anche l'unica, guarda un po', ad aver scommesso pienamente su energie rinnovabili e sviluppo sostenibile – dalle economie doloranti di Grecia, Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo. Troppi i quasi 400 punti di spread che separano i bond italiani da quelli tedeschi – per quanto sia discutibile e del tutto arbitrario il sistema di valutazione proposto dalle agenzie di rating.
A questo si aggiunga il declino delle democrazie rappresentative del vecchio continente, che vanno smantellando lo storico sistema di welfare e si presentano sempre più distaccate dalla popolazione che sono chiamate a rappresentare e sempre più vicine agli ambienti della finanza internazionale, quando non sono dedite alla cura dei propri stessi interessi.
In pratica, come riassume perfettamente Mike Davis in un articolo per Il Manifesto del 31 luglio scorso, sono stati messi in dubbio di colpo “tutti e tre i pilastri del McWorld, già assai più traballanti di quanto si pensi: consumo americano, stabilità europea e crescita cinese”.
Di fronte ad una crisi duratura ha mostrato tutta la sua debolezza intrinseca quell'intreccio di modelli economici – e sociali – che fino a ieri veniva considerato pressoché incrollabile. Hanno fallito il consumismo ed il neoliberismo americani, ha fallito la produzione a basso costo cinese, hanno fallito le vuote democrazie europee. È ormai chiaro che la ricetta per uscire dalla situazione attuale non deve passare per nessuno dei tre precedenti modelli. Chi propone soluzioni suicide come quella di accelerare i processi di privatizzazione dei beni e servizi degli stati in crisi si dimostra miope o particolarmente interessato.
Urge un cambiamento di rotta, questa volta non solo apparente. Perché questo avvenga non basterà affidarsi ai governi, complici di questo disastroso progetto economico mondiale. Da sempre le crisi finanziarie – necessarie al sistema capitalista per rigenerarsi – hanno portato a situazioni di maggiore concentrazione economica, alla perdita dei diritti da parte dei cittadini, all'imposizione di leggi e provvedimenti liberticidi, in nome di un fantomatico ‘bene superiore’.
Oggi, per la prima volta nella storia, la consapevolezza dei cittadini, la loro comprensione di queste dinamiche distorte è tale da non poter più accettare ad occhi chiusi una 'pillola della salvezza'. In molte parti del mondo il popolo è oggi più avanti nel processo di cambiamento culturale rispetto alle istituzioni chiamate a rappresentarlo e guidarlo. Quasi ovunque, come reazione alla crisi, le persone si sono arroccate a difesa non tanto dei loro singoli possedimenti, quanto di ciò che consideravano un bene comune, ottenendo spesso importanti vittorie.
Così come nei quadri dei pittori fiamminghi il fumo nero dei vascelli in fiamme non lasciava intravedere l'orizzonte, il caos suscitato dal collasso del sistema economico attuale non permette di stabilire con certezza cosa accadrà nei mesi venturi. Né si può intuire se tutte le barche affonderanno o se e quante ne resteranno a galla. E chi lo sa, magari ad affondare saranno soltanto dei vecchi gusci vuoti, involucri pesanti senza contenuto, e verranno salutati da lontano dall'equipaggio – a bordo di imbarcazioni nuove e più efficienti – col sollievo con cui si saluta l'ultima immagine di un brutto sogno, nel momento in cui ci si risveglia.
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