Sono partiti in piccolo, riunendo esponenti di due province italiane, ma già pensavano in grande e nel giro di poco, nel 2004, erano già un “comitato” di province, che portava in dote patrimoni di tradizioni, usi, costumi e rituali. Poi nel 2007 il comitato è stato riconosciuto Rete italiana di Cultura Popolare dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ora ha partecipato al bando nazionale “Che fare” per il progetto OR@LE, un archivio accessibile a tutti e gratuito che raccoglie la storia dei territori italiani in formato testo, audio, foto e video, progetto al quale tutti possono contribuire. Della realtà della Rete ci parla il direttore Antonio Damasco.
La vostra rete è riuscita a mobilitare diverse realtà; qual è il bilancio dell'esperienza portata avanti finora?
«Negli ultimi tre anni, il progetto della Rete è stato riconosciuto anche all’estero, permettendoci di costruire rapporti di collaborazione con più di dodici paesi dell’area euro-mediterranea e sviluppando il progetto “Arianna. Euro Mediterranean Network of Culture and Heritage”. Oggi la Rete, formata da antropologi, linguisti, storici, ma anche da enti pubblici e privati ed in collaborazione con istituzioni culturali ed il mondo del volontariato e del terzo settore è presente in molte aree del territorio italiano».
Quali restano gli obiettivi da raggiungere e quali invece ritenete raggiunti? O è meglio parlare di obiettivi costantemente in movimento?
«La Rete ha come obiettivo sostanziale quello di mettere a sistema le riconosciute diversità che caratterizzano le attività socio-culturali dei territori. Le motivazioni sono connesse alla volontà di far emergere, promuovere e riproporre i saperi radicati nei territori, interessandoci alla loro capacità di essere luoghi di socialità, in cui è possibile la trasmissione dei saperi.
Gli obiettivi principali che continuiamo a perseguire sono:
- far emergere e promuovere le culture radicate nei territori italiani euro-mediterranei, inserite in un continuo dialogo affinché il sentimento positivo dell’appartenenza alla cultura locale non si trasformi in un pericoloso localismo;
- creare le condizioni affinché tali culture, inserite in un sistema di rete, costituiscano una risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la promozione delle risorse locali;
- contribuire a creare una cornice identitaria nazionale che raccolga e valorizzi la pluralità delle culture locali italiane;
- coinvolgere le nuove generazioni, favorendo il passaggio dei saperi e sviluppando iniziative per mezzo di strumenti contemporanei e innovativi;
- sviluppare i presupposti affinché le comunità locali riconoscano, attraverso questi scambi, le proprie culture come necessarie ed avvenga una riappropriazione delle stesse da parte delle nuove generazioni in chiave innovativa e contemporanea».
Cultura e tradizione possono essere valori in grado di aiutare ad uscire da questa crisi strutturale anche di valori?
«La cultura antica e le tradizioni prodotte dai territori e dalle comunità di riferimento sono senza dubbio valori da riscoprire e condividere. La nostra indagine parte da un percorso storico per approdare spesso alle nuove idee di socialità, debitrici di elementi solo apparentemente scomparsi o meglio assopiti, ma che ad una analisi più attenta sembrano semplicemente trasformati. Per il gruppo che ha iniziato questa avventura, che era radicato nel Torinese, tutto è iniziato perché volevamo incontrare la tradizione. In una sorta di ricerca emozionale, dove l’ambiguità del presente di noi immigrati di seconda generazione o sradicati dalle campagne autoctone e inseriti in una città multiculturale, si scontrava con una discordante radice linguistica e carnale. Cercavamo di appartenere alla città di Torino dove eravamo cresciuti e ci eravamo formati. Con gli anni ho imparato dall’antropologia che il nostro sentimento era ed è comune a quello di molte altre migrazioni, dove i padri rifiutano la propria memoria mentre i figli ri-leggono quella dei nonni, così come ora sta accadendo ai nuovi migranti provenienti da Perù, India, Romania e tanti altri paesi. Questo è stato l’avvio: incrociando alcuni di questi maestri inconsapevoli avevamo la possibilità di conoscere una “cultura altra”, assente dai programmi scolastici. In un luogo dove i saperi si erano sedimentati, re-inventati, sovrapposti a quelli di molti altri e si erano trasferiti da una generazione all’altra, da padre in figlio e da madre in figlia, oralmente, attraverso l’esercizio della comunità, della condivisione delle esperienze: voce, corpo e azione. Non era un atto artificiale, ma necessario. Non vogliamo mitizzare un mondo, non parliamo di un passato arcadico. Vogliamo però provare a vincere almeno la battaglia delle diversità culturali, far sapere alle generazioni future che la bellezza è reperibile ovunque, che non vi sono luoghi deputati e che non bisogna possedere degli oggetti per poterne godere. Quello che cerchiamo è la festa, il rito, quello necessario, dove una comunità di uomini ha bisogno di riconoscere i suoi simili, anche nel momento più infelice, più doloroso. Ricordo che un amico, docente di antropologia a Roma, mi raccontò un episodio di “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Non credo vi sia situazione peggiore di quella descritta dall’autore sopravvissuto alla Shoah, ove la dimensione “uomo” perdeva qualsiasi connotazione, anche fisica, per essere ridotto ad un cumulo di carne ed ossa, senza più sentimenti ed emozioni, permettendo così ad altri uomini di sentirsene possessori e quindi in grado di sostituirsi alla morte. Il docente mi raccontò che, durante una ricerca per un libro sulle feste, trovò, quasi inaspettati, barlumi di spirito festivo, poche parole appunto, dentro questo magnifico e orribile racconto. Come i Greci di Salonicco, che “stanno stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene”. E che dicendosi, “l’anno prossimo a casa” “continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza, e si ubriacano di canzoni”. Basterebbe questo frammento a spiegare il ruolo della cultura in una società dove gli uomini vogliono, devono, convivere e perché la politica non può da essa prescindere, se riconosciuto compito della politica è leggere e costruire i complessi rapporti del vivere comune. Tanto più, se questa cultura non crea elite, non si divide in alta e bassa».
Ritenete che questo sia il momento giusto per sensibilizzare la popolazione alla diversità di culture e provenienze? Non notate una recrudescenza di intolleranza?
«I riti portano con sé semi ed elementi che accomunano paesi e civiltà di tutto il mondo. Basti pensare alla tradizione della Poesia a Braccio. Abruzzo, Lazio e Toscana sono le terre in cui è nato il canto a braccio in endecasillabo e dove continua a essere praticato. Anche nella Sardegna del nord i poeti cantano utilizzando l’ottava rima, mentre nel sud dell’isola la metrica è differente. Inoltre, durante le gare, si va oltre al confronto di tesi differenti: l’esercizio consiste nel riconoscere un contenuto segreto all’interno dei versi. La bravura, e la competizione, sta nello scoprire questo elemento nascosto tra le rime dell’intervento della squadra avversaria. Ma il canto a braccio è presente anche al di fuori dell’Italia. Per quel che riguarda l’estero abbiamo testimonianze significative nell’area ispanica, Baleari e Paesi Baschi in primis. Ma questa poesia è molto diffusa anche nell’America centrale, sebbene i versi 10 anziché 8, e non sempre siano endecasillabi. Meno conosciuto, ma altrettanto importante, è il canto a braccio nel mondo arabo: Palestina, Libano, Nord Africa. Potremmo declinare altri numerosi esempi simili, connessi alle ritualità del fuoco, alle processioni devozionali, alle maschere zoomorfe e tanto altro. I riti e le feste sono l’espressione lampante che l’umanità è del tutto interconnessa».