di
Dario Lo Scalzo
23-04-2012
Il 13 aprile scorso è uscito nelle sale il film Diaz, che racconta i fatti del G8 di Genova del 2001 e, in particolare, il pestaggio avvenuto dentro la scuola Diaz. Il Cambiamento ha incontrato e intervistato Daniele Vicari, il regista che ha deciso di portare sul grande schermo uno degli episodi più drammatici e controversi della storia contemporanea italiana.
Dopo avere vinto in Febbraio il Premio del Pubblico al Festival del cinema di Berlino, dal 13 Aprile è al cinema il film Diaz che racconta i drammatici e raccapriccianti fatti della notte del 21 luglio 2001 presso la scuola Diaz di Genova durante il G8. In occasione dell’uscita del film nelle sale italiane Il Cambiamento ha incontrato il regista Daniele Vicari.
Dopo i titoli di coda si sprofonda nel silenzio, si vive per alcuni minuti uno stato di shock, si fa fatica a credere che quella appena vista sia la rappresentazione di un evento realmente accaduto. Piacerebbe pensare di avere assistito alle fantasie di un regista che con maestrìa ha trasferito la sua idea in realtà cinematografica. Obiettivo raggiunto?
Un film parla attraverso le immagini e attraverso le emozioni. Se non è capace di comunicare non serve a niente e non fa vivere nessuna esperienza allo spettatore. Io credo in un cinema nel quale le idee non sovrastino il contenuto del racconto e in cui le cose si mescolano in maniera organica altrimenti il rischio è che il film sia destinato a morire immediatamente, ce lo insegna un secolo di cinema.
In Diaz gran parte del lavoro artistico fatto è partito dalla realtà, da dati reali per andare proprio in quella direzione e sono contento che lo spettatore si faccia delle domande perché ciò dimostra la sua capacità e voglia di aprirsi all’esperienza, che è ciò che in seguito lo conduce a porsi altre domande più radicali, sul mondo, sulla politica, sulla storia.
Il film non vuole essere una ricostruzione storico-politica degli avvenimenti del G8, per questo alcuni ambienti lo hanno criticato. Cosa rispondi a questo tipo di osservazione?
Queste posizioni le definisco zdanoviste. Zdanov era il ministro della propaganda sovietica. È rimasto ben saldo nell’inconscio degli uomini politici di sinistra che anche quando hanno fatto uno strappo nei confronti della sinistra stalinista sono in fondo rimasti ancorati a quell’ideologia lì. Ancora oggi quell’ideologia sopravvive. Mi spiego, davanti all’arte, alla cinematografia e a qualunque forma e produzione culturale, le persone che si occupano solo di politica tendono a concepire l’espressione artistica come funzionale alla loro lotta politica. Se non è funzionale non ha alcun valore e questo è il motivo per cui queste persone sono inesistenti politicamente.
Non sono in grado di comunicare con il resto del mondo se non con degli strumenti che diventano spesso delle barriere indistruttibili nei confronti di ciò che succede nel mondo. Non comunicano perché hanno un approccio schematico e così un film provocatorio come Diaz non lo digeriscono perché non ci si riconoscono. Mentre il pubblico, sebbene abbattuto, toccato, scosso, esce soddisfatto. Detto questo le critiche al film, dal punto di vista artistico, storico, per me ci stanno, non ci sta la predica del politico che vorrebbe che il film rappresentasse se stesso o quello che lui pensa sul mondo.
Indubbiamente l’emotività trasmessa dalle immagini e forse anche il senso di colpa e di indiretta 'complicità' che si prova nel vedere e nel rievocare eventi oscurati e trascurati permettono al film Diaz di lasciare un segno, una traccia evidente nelle nostre coscienze e nella storia cinematografica. Un film come il tuo, con questa scelta di campo, al di là della presa di conoscenza di quella notte, cosa può lasciare al giovane ventenne, figlio del berlusconismo, che sconosce il G8 di Genova e quel periodo storico?
Il giovane di quest’epoca, alla quale facciamo parte anche noi, ha a disposizione degli strumenti straordinari che le generazioni precedenti non avevano. Con un click può fare venire fuori tutti i documenti prodotti dal G8, dal movimento altermondialista, può trovare i nomi di tutti poliziotti coinvolti o di quelli dei politici. Se il film riesce a spingere queste persone ad interrogarsi sulla storia recente sono contento.
I giovani hanno le potenzialità per interrogarsi su queste tematiche; io ho molta fiducia in questi ragazzi, a differenza dei vecchi politici sfiduciati che hanno ferite profonde e con le quali fanno da schermo alla realtà. Per i ragazzi è diverso, anche se sono tabula rasa, andando al cinema vedono una cosa che sconvolge, che colpisce e approfondiscono, ricercano. Diaz è un film pensato per uno spettatore dell’era della Rete, di Internet, e si rivolge a questo spettatore. Soccombe solo chi non riesce a stare dietro a questa era.
Inevitabile chiederlo, dopo il silenzio e l’oblio delle istituzioni nazionali ed internazionali durante questi ultimi undici anni, credi che Diaz possa giocare il ruolo di documento di denuncia e di risveglio delle coscienze e condurle ad una revisione più critica degli eventi?
Non ho dubbi e del resto siamo già stati invitati in seno al Parlamento europeo, il 15 Maggio, a mostrare il film. È un grosso risultato. I parlamentari europei quel giorno avranno la possibilità di vedere qualcosa che probabilmente anche a loro è stata occultata. Detto questo, il film è un film; non è un volantino ideologico, non è un documento politico e non è nemmeno un processo, è un racconto. Ed è attraverso le armi del racconto che problematizza la realtà a cui fa riferimento e non attraverso le armi delle ideologie.
Si può dire che con la notte alla Diaz il sistema nazionale - con l’avallo di quello internazionale - abbia voluto dare un segno forte ed abbia dato il via ad una strategia della paura per reprimere gli emergenti movimenti giovanili dell’epoca e ritardare di un decennio quanto sta accadendo oggi con gli indignati, i movimenti Occupy e altri gruppi simili?
Assolutamente sì, ma non solo. Questa è solo la punta dell’iceberg del controllo sociale. Per esempio la sospensione dei principi della democrazia, dei principi dell’essere umano e della Carta fondamentale dei diritti umani è stata istituzionalizzata in Occidente dopo l’11 Settembre. La nostra democrazia è diventata un perenne stato di eccezione e questa strategia ha condotto a costruire sotto il naso dell’intera cittadinanza dei luoghi di reclusione inediti, che sono i CIE (centri di identificazione ed espulsione) dentro i quali finiscono dei cittadini che non hanno commesso alcun reato e questo con il consenso della maggior parte della popolazione.
Questa forma di sospensione del diritto è diventata anche una formula di consenso oltre che una formula repressiva; per esempio ciò accade attraverso il controllo dei flussi migratori. Il senso d’impotenza delle associazioni che si occupano di questioni simili è veramente drammatico perché sembra invincibile la forza che porta a tali mostruosità, ma ci si deve rendere conto, tutti, che questa roba non ha nulla a che vedere con la democrazia. Perciò, realizzando il film Diaz ho deciso di concentrare tutto il racconto intorno alla questione della sospensione dei diritti, non per fare una revisione storica come alcuni insinuano, ma perché credo che il nodo cruciale della questione sia la sospensione dei diritti civili.
Due ore nelle quali si intrecciano numerose storie e i fatti si sviluppano attraverso una magistrale scomposizione cronologica, quanto avete ‘tradito’ la realtà per esigenze di copione?
Quasi nulla, anzi questa struttura ci ha permesso di collegare i frammenti di esistenza narrati nel processo. Nel processo sono raccontate delle esperienze in maniera molto selettiva e allora noi per non tradire le testimonianze delle persone, né quelle della gente arrestata, né quelle delle forze dell’ordine, abbiamo costruito una narrazione che ci permettesse di saltare da una situazione all’altra senza creare automaticamente dei collegamenti forzati. Il montaggio del film si fa nella testa dello spettatore ed in questo senso il montaggio diventa dinamico e non è un una cosa costrittiva. Ti racconto una storia per farti fare un’esperienza dalla quale tu trai le tue personali considerazioni.
Perché per la realizzazione di Diaz si è dovuto fare ricorso a una co-produzione con degli stranieri? Perché la tematica trattata è scomoda? Più in generale per la situazione difficile che vive il cinema italiano che riesce a sfornare per di più commedie nazional-popolari? O per altro?
Domenico Procacci, il mio produttore, non ha trovato un solo partner prima di cominciare le riprese, nemmeno uno. Questo per evidenti motivazioni politiche. Solo a sentire il titolo della sceneggiatura nessuno ha voluto neppure leggerla, nessuno. Dopo Berlino le cose sono cambiate, abbiamo ricevuto un piccolo finanziamento pubblico, importante moralmente, e quello di altri soggetti. Ma abbiamo iniziato le riprese senza nessun finanziatore, solo prima di finire le riprese siamo riusciti ad avere dei contributi.
La realizzazione di un film come Diaz cosa lascia nell’uomo e nel regista Vicari?
La consapevolezza che quella cosa che chiamiamo democrazia è molto fragile, molto più fragile di quello che immaginavo prima.
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