di
Valentina Vivona
05-08-2011
A dieci anni dalle manifestazioni del g8 e dalle violente repressioni da parte delle forze dell'ordine che le caratterizzarono, la testimonianza di chi c'era, tra le strade di Genova, lo scorso 21 luglio, per ricordare i fatti avvenuti nel 2001 e l'uccisione di Carlo Giuliani.
Genova, nel 2001, scorreva su un televisore. Anche a distanza di dieci anni, non è difficile rievocare gli scatti di Piazza Alimonda. Un estintore, la camionetta della polizia, una pistola, Carlo per terra. Un muro arancione pallido sullo sfondo.
Non ci fosse stato quel muro, però, non l’avrei riconosciuta. Per questo inizialmente non capivo perché le fiaccole del corteo che, nella notte del 21 luglio, hanno percorso la città dal porto alla scuola Diaz avessero deciso di posarsi in questo luogo. “Qui è stato ucciso”. Ho cercato la targa, e ho visto l’incisione cancellata dalla scritta “Piazza Carlo Giuliani”. Il muro, il giardino, la chiesa, l’estintore, la camionetta: piazza Alimonda è un vicolo, piazza Alimonda è senza scampo. È vero che la televisione ingrassa.
Fino a quel momento, le tracce del 2001 erano state nascoste dai seminari sparsi per la città dove i movimenti, i sindacati e le associazioni reduci da un anno intenso di manifestazioni e campagne si confrontavano sugli scenari presenti e le sfide future. In un clima di contenuta soddisfazione per la vittoria referendaria, si rimandava ogni azione concreta a settembre. Sospensione del tempo presente.
Le fiaccole, nella notte, hanno arrestato il loro cammino solo quando sono arrivate alla scuola Diaz. Una struttura alta e fascista, bianca al punto da definirsi anche nell’oscurità. Una struttura inquietante. Chi c’era ha preso la parola e ha raccontato il proprio ricordo, ha lanciato l’ennesimo grido contro le assoluzioni ingiuste. Genova non dimentica, Genova non perdona le forze dello stato accanite contro chi era nella città per offrire, festeggiare un’alternativa. Globalizziamo la lotta, globalizziamo la speranza. Una speranza presa a manganellate durante la notte, detenuta e incriminata, macchiata, schiacciata. Presente.
Presente nei volti di chi, come me, dieci anni fa non c’era. Di chi, dieci anni fa, iniziava appena a domandarsi cos’era la politica. Di chi, pochi mesi prima, aveva assistito al trionfo elettorale di Berlusconi senza poter votare. Guardando con ironia a un personaggio deriso per la scelta di slogan come “Un presidente operaio” o “Meno tasse per tutti” (o Totti?). Di chi non percepiva la sua pericolosità. Di chi non conosceva le connessioni. Di chi canta quest’anno per la prima volta la speranza, di chi chiede giustizia sociale e ambientale come se la vertenza nasca oggi, come se fosse la prima volta. Di chi, di quella notte, non ha ferite. Di chi ha tutti i denti in bocca. È strano non aver dovuto assorbire i lividi, non aver posseduto quella rabbia. È strano vedere, nel contempo, come quella violenza non abbia scalfito i movimenti. Come sia concesso, a quelli come me, di credere nella stessa speranza.
Guardando i volti di chi dieci anni fa c’era, cerco di misurarne la forza: sono fantasmi, o sono fenici?
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