di
Francesco Bevilacqua
05-01-2011
Due importanti personaggi del passato hanno scritto parole ispiratrici sulla disobbedienza civile, cioè il diritto-dovere di rifiutarsi di obbedire a leggi che non rispettano i principi di giustizia, equità e libertà. Analizzando brevemente il loro pensiero, proviamo a immaginare quale applicazioni potrebbe avere ai giorni nostri.
Nel 1848 lo scrittore americano Henry David Thoreau fu incarcerato per non aver pagato una tassa di finanziamento della guerra in Messico. Rilasciato dietro cauzione (versata da una parente contro la sua stessa volontà), Thoreau pronunciò l’anno dopo, durante una pubblica assemblea, un discorso che sarebbe poi stato pubblicato e avrebbe ispirato tantissime persone, alcune molto conosciute e influenti, nei decenni a venire. Il titolo di questa sua orazione era Resistenza al governo civile, poi mutato in Disobbedienza civile, con cui divenne noto ai più.
Al di là del tema specifico che scatenò l’intera vicenda e provocò l’arresto – il rifiuto di pagare la poll-tax di 1 $ per finanziare la cosiddetta 'guerra di mister Polk' –, il pensatore americano si pone un quesito fondamentale, ovvero se sia giusto ubbidire a delle leggi che ledono la coscienza dell’individuo e, più in generale, sottostare a uno Stato che non tiene conto della volontà dei suoi cittadini.
Secondo Thoreau, prima di tutto bisognerebbe rispettare la propria coscienza, "la percezione e l’attuazione del giusto". Le stesse leggi dello Stato dovrebbero essere formulate secondo coscienza, rispettando la dignità di tutti i cittadini e non solo dei più potenti o dei più ricchi. Proprio questo è il punto di contrasto: accade spesso che l’obbedienza civile sia in conflitto con dei principi che superano per importanza quelli statali, quegli stessi principi che – come vedremo più avanti – secondo Don Milani si rifanno alla legge divina o, per chi non è credente, alla legge di coscienza.
Posto davanti a questa scelta, Thoreau non ha dubbi: "dovremmo essere prima di tutto uomini e poi sudditi. Non c’è da augurarsi che un uomo nutra rispetto per la legge ma che sia devoto a ciò che è giusto". In questo modo si apre il conflitto fra l’uomo – che spesso non è un singolo individuo ma un gruppo, un movimento, una massa – e lo Stato, un’entità superiore per forza e potere ma in molti casi inferiore in quanto a rettitudine e senso di giustizia.
Thoreau non rinnega lo Stato come entità, rifiuta quello stato, lo stato americano del diciannovesimo secolo, lo stato che aggrediva proditoriamente il vicino Messico, lo stato che non rinnegava la schiavitù, lo Stato retto e amministrato da persone che rispondevano a interessi diversi da quelli dei cittadini. È però pronto a obbedire a uno Stato le cui leggi siano studiate rispettando la coscienza e i valori di tutti, condivisi dalla comunità, anche se realisticamente non è molto ottimista su un suo avvento.
Ancor meno dello Stato e delle sue leggi Thoreau sopporta gli uomini onesti, i patrioti del suo tempo, fedeli allo Stato e ingannati dal meccanismo della (finta) partecipazione democratica e del meccanismo elettorale, protagonisti di un laissez-faire che ricorda tanto la democrazia della delega che sta rovinando la vita politica nel nostro paese, la tanto sbandierata fiducia nelle istituzioni che maschera blandamente il disinteresse per l’applicazione dei principi di giustizia e libertà nella vita sociale e pubblica della comunità.
Questo disprezzo si accompagna alla passione con cui Thoreau attua la sua disobbedienza civile, che egli considera un diritto, anzi un dovere, sacrosanto e inalienabile, tanto che all’amico Emerson che lo va a trovare in cella e gli chiede che cosa ci faccia lì dentro risponde: "Waldo, la vera domanda è cosa ci fai tu lì fuori".
Di disobbedienza civile si sono occupati in maniera più o meno approfondita ed empirica molti altri personaggi della nostra epoca e di quelle precedenti, diversi dei quali presero ispirazione proprio dalle parole dello scrittore americano, come per esempio Gandhi, secondo cui la disobbedienza si sostanziava nella resistenza – naturalmente non-violenta, secondo le sue convinzioni – che consisteva nel violare le leggi che erano considerate ingiuste e pagarne le conseguenze, anche in termini di detenzione (Gandhi stesso trascorse in carcere più di sei anni della sua vita, mentre Thoreau protestò vivacemente quando gli venne pagata a sua insaputa la cauzione).
Analogo è il pensiero di una persona che praticò la disobbedienza civile in un luogo e un tempo molto più vicino a noi, cioè Don Lorenzo Milani. A questo proposito è famoso il suo scritto L’obbedienza non è più una virtù, considerato uno dei manifesti dell’obiezione di coscienza e composto da alcune lettere rivolte ai giudici e agli accusatori di un processo che lo vide imputato per apologia di reato, avendo egli difeso degli obiettori incarcerati.
In questo caso il potere esercitato dallo Stato è rappresentato dalla leva militare, dagli ordini impartiti ai soldati dai loro superiori e dall’opportunità di eseguirli anche se in palese contrasto con le singole coscienze dei militari. Don Milani rivendica le sue posizioni, si esprime per ribadire la propria innocenza ma al tempo stesso assicura che le sue idee e i suoi metodi di insegnamento non cambieranno se verrà condannato, poiché egli ubbidisce alle leggi di Dio – per chi ci crede –, della morale e della coscienza e non dello Stato, visto che queste ultime sono spesso immorali e ingiuste.
Milani considera – forse ingenuamente, guardando la situazione con il senno di poi – il voto e lo sciopero i diritti costituzionalmente garantiti grazie ai quali i cittadini possono esprimersi, ma al tempo stesso ritiene che l’esempio, l’azione e, quando serve, la disobbedienza siano una leva ancora più efficace.
Spesso poi, è più difficile disubbidire che ubbidire, soprattutto se si accetta consapevolmente le conseguenze delle proprie azioni, secondo un coraggio, una coerenza e una convinzione nelle proprie idee che supera anche la paura del carcere o di pene peggiori.
L’esempio che Don Milani propone è quello di Claude Eatherly, la vedetta che precedette l’Enola Gay la mattina del 6 agosto 1945 e che autorizzò lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima con le famose parole "su Nagasaki coperto, su Hiroshima sereno, con visibilità dieci miglia sulla quota di tredicimila piedi".
L’aviatore americano si congedò subito dopo la fine del conflitto abbandonando una promettente carriera militare, rifiutò la pensione di guerra e visse il resto della sua vita fra i tormenti, rinunciando a psicofarmaci e tranquillanti nonostante ogni notte sognasse le donne e i bambini carbonizzati da Little Boy.
Come scrisse Don Milani, "un 'bravo ragazzo, un soldato disciplinato' secondo la definizione dei suoi superiori, 'un povero imbecille irresponsabile' secondo la definizione che dà lui di sé". Per Milani come per Thoreau, proprio i 'bravi ragazzi', i collaboratori, coloro che permettono agli Stati tiranneggianti e alle leggi ingiuste di perpetrarsi, sono i peggiori, poiché in quanto sottoposti, ubbidienti a ordini e norme superiori, si considerano irresponsabili dei danni e delle conseguenze negative provocate dai loro comportamenti, al contrario dell’obiettore e del disubbidiente, per i quali l’assunzione della responsabilità in prima persona è una prerogativa fondamentale.
Per concludere queste considerazioni sulle idee di due propugnatori della disobbedienza civile, vediamo brevemente che valore può avere questa pratica oggi.
Prima di tutto dimentichiamoci delle varie rivoluzioni colorate, ultima in ordine di tempo quella dell’Onda Verde in Iran, propagandate come l’ultima versione dell’azione non violenta e della disobbedienza civile, ma ispirate da un pensatore tanto conosciuto quanto controverso qual è Gene Sharp e caratterizzate da alleanze strategiche troppo sospette per non indurre a pensare che si tratti di operazioni molto meno spontanee e massive di quanto vogliano farci credere.
Dimentichiamoci anche degli altrettanto controversi episodi di cui sono stati protagonisti i dimostranti che recentemente – in maniera peraltro molto poco non-violenta – hanno manifestato contro il Governo e la riforma della scuola. Pensando a questi casi, la prima caratteristica che viene in mente e che dovrebbe possedere chiunque si rifiuti di obbedire alla legge, è la consapevolezza: sia per evitare una caotica anarchia in cui i principi a cui obbedire non sarebbero più equità, giustizia e libertà bensì convenienza personale – per capirci: una tassa non va pagata perché è ingiusta, non perché abbiamo voglia di tenerci in tasca qualche soldo in più –, sia perché abbiamo innumerevoli testimonianze di come tanto le masse quanto le singole persone siano spesso facilmente manipolabili.
Il primo passo, certamente non indifferente, è quindi quello di creare una consapevolezza diffusa, gettare le basi culturali di un movimento o anche solo di una corrente di pensiero disobbediente, anticonformista, intransigente e decisa a portare avanti con coerenza le proprie idee.
Al tempo stesso, è necessario lavorare sulla creazione di criteri alternativi sui quali fondare una nuova visione, poiché non si può contestare le leggi vigenti senza proporne di nuove, più giuste e più eque.
Un terzo suggerimento è quello non cadere nelle trappole che il sistema dominante ha approntato: non illudersi di cambiare le cose affidandosi al voto elettorale, alle iniziative dei sindacati, ai partiti di nuova costituzione ma di vecchia concezione e a tutti gli altri meccanismi che servono semplicemente come valvola di sfogo per la voglia di cambiamento delle persone ma che non producono nulla di sostanziale. Pur senza volere spingere le folle in piazza né scatenare una grande rivoluzione dal giorno alla notte, non è fuori luogo pensare che non manchi molto al momento in cui bisognerà davvero uscire dagli schemi, cominciare a pensare e ad agire seguendo nuove idee e nuovi valori, mandando in pensione quelli vecchi e le strutture che li sorreggono.
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