di
Silvia Papi
29-08-2011
“Accostando fra loro le immagini femminili attuali, avvicinando quelle del passato a quelle del presente, sembra di intuire che si è perso qualcosa di molto importante, qualcosa che ha a che fare con la profondità, con lo spessore e la ricchezza dell’animo umano, sostituiti da superficialità, banalizzazione dei rapporti e dei sentimenti”. Proponiamo un intervento di Silvia Papi, dedicato al ruolo della donna e l’immagine spettacolarizzata che se ne trae nella società attuale.
Uno degli argomenti di cui si sente parlare a partire dall’inverno appena trascorso – esasperato dalle vicende che hanno a che fare con il solito 'Presidente del consiglio' – riguarda le donne, l’uso della loro immagine, le loro scelte di vita, il loro ruolo. Ovviamente chiamate maggiormente in causa sono le giovani donne, quelle che stanno costruendosi una vita; e le giovanissime, che guardano alle giovani e si fanno un’idea di come vorrebbero fosse la loro vita futura.
Noi che abbiamo superato la boa dei cinquanta e le scelte le abbiamo già fatte, più che altro siamo osservatrici. Siamo “diventate grandi” in uno scenario ben diverso dall’attuale, quello degli anni ’70, per certi versi migliore per altri no, senza tessere nessun elogio del buon tempo passato. Guardandoci intorno e quel che vediamo è un’immagine femminile molto sfaccettata su cui riflettere.
Ci sono le donne che si vendono per danaro, che hanno riempito le pagine di cronaca politica dei quotidiani; dato che si tratta del mestiere più vecchio del mondo, e tenuto conto che ci sono ben altre cose su cui val la pena indignarsi, è la cosa meno interessante. Nello specifico sarebbe più utile, forse, domandarsi dov’è finita invece la politica ‘vera’ e cosa ne abbia preso il posto. Ma l’uso mediatico che di queste stesse donne viene fatto è più importante, poiché, così sottolineate, divengono un possibile modello da imitare, nel piccolo o nel grande.
Ci sono i corpi delle donne che imperversano sui rotocalchi, oltre che sui quotidiani, in una continua suggestione all’acquisto di biancheria intima, scarpe, borsette, valigie e altro ancora, sempre e soltanto attraverso una più che esplicita allusione erotica o pseudo-tale. Corpi e atteggiamenti diventano possibili modelli agli occhi di chi si sta formando, di chi sta cercando la propria identità (compresa quella sessuale) e non è poca cosa.
Ci sono poi le giovani donne in cerca di un’occupazione che non trovano (come i giovani uomini peraltro, solo più penalizzate ancora, come sempre); le lavoratrici indignate che protestano perché le condizioni di lavorano peggiorano o perché il lavoro rischiano di perderlo; le donne che sgobbano all’inverosimile tra casa, famiglia e lavoro perché non esistono servizi adeguati e sufficienti a supportare una famiglia con figli (o genitori anziani).
Sono donne che ogni tanto emergono nel tentativo di far valere i loro diritti. Donne che si notano poco, ma che sanno tener duro, che resistono. Come le donne straniere che vivono insieme a noi, più o meno visibili (o più o meno nascoste) che cercano proprio qui un futuro migliore, per sé e per le famiglie lasciate nei loro paesi d’origine. Sono tante e coraggiose. Anche questi sono modelli di donna, meno appariscenti, meno allettanti.
Fuori dai nostri confini ci sono le donne col capo coperto che in questi ultimi tempi protestano, accanto agli uomini, nelle piazze dei paesi del Medio Oriente, rivendicando il diritto alla dignità del vivere. E quelle invisibili, di cui ci arrivano le storie attraverso internet, (come, ad esempio, l’Afghan Women Writing Project – AWWP), la letteratura e talvolta qualche giornale illuminato. Donne a cui è stata tolta ogni libertà dai totalitarismi finto-religiosi, donne che hanno visto i loro paesi precipitare nelle guerre più atroci e loro stesse perdere ogni diritto, obbligate a nascondersi e subire. Donne che pagano e hanno pagato con carcere, torture e morte la ribellione, ma a volte solo la colpa di aver osato alzare gli occhi, oppure di essere giovani e belle.
Ma vengono in mente anche le donne del passato, quelle che hanno attraversato la storia per i loro talenti, la forza, il coraggio. Quelle che hanno saputo far sentire la loro voce quando la società ancora negava loro il diritto al voto, le scrittrici, le artiste, le mistiche, le donne partigiane che combatterono accanto agli uomini durante l’ultima guerra, le donne che silenziosamente hanno sostenuto intere famiglie, quelle che negli anni ’60 e ’70 hanno gridato nelle piazze e hanno creduto di cambiare, per sempre e in meglio, il modo di vivere se stesse e i rapporti con l’altro sesso, le condizioni di lavoro.
Quindi, accostando fra loro le immagini femminili attuali, avvicinando quelle del passato a quelle del presente, sembra di intuire che si è perso qualcosa di molto importante, qualcosa che ha a che fare con la profondità, con lo spessore e la ricchezza dell’animo umano, sostituiti da superficialità, banalizzazione dei rapporti e dei sentimenti. Rimane un vuoto che è riempito di merci e dal rumore dello spettacolo che invade l’intimità, la quale viene spettacolarizzata a sua volta.
Mi sembra che non si voglia vedere la vita nella sua interezza e che questa sia la cosa più grave: l’interezza che comprende vecchiaia, dolore e morte come parti integranti dell’esperienza del vivere. Che non si voglia vedere quella parte di vita che pure esiste, in maniera molto consistente; e così la si rende mutilata, squilibrata, grottesca, privata di quel lato oscuro che riceve e fa risplendere la luce.
Non si può vivere senza la morte, vita e morte vanno insieme, è il mistero di cui siamo pervasi, sul quale ci si interroga. Da sempre abbiamo cercato i modi per vivere anche quel momento così importante della vita che è l’ultimo. Di celebrarlo.
Oggi il dolore va solo respinto, cancellato, anestetizzato e lo sforzo per comprendere il suo linguaggio diventa un concetto obsoleto. Della morte non si può parlare, è diventata un tabù; così è la paura a farla da padrona, con quel che ne consegue.
La vecchiaia è nascosta o mimetizzata. La gioventù, protratta il più a lungo possibile, ai limiti del grottesco, recita lo stereotipo di sé stessa, ignorando la vera bellezza.
Noi donne che fisiologicamente abbiamo sempre avuto a che fare con dolore, nascita e morte più da vicino, che in qualche modo ce ne siamo sempre occupate, perché non possiamo essere proprio noi a risollevare le sorti di questa società spaventata, riconoscendo il valore profondo del femminile, il significato antico ed universale dell’essere-donna accanto all’essere-uomo, in un rapporto di parità che esige il riconoscimento della differenza, invece che l’omologazione di entrambi i sessi ad un unico tipo di essere produttore-consumatore?
Guardo i diciotto anni di mia figlia che cresce e mi chiedo con che sguardo stia guardando al mondo. Guardo me stessa, le donne che conosco, e vorrei sentire altre voci scambiarsi opinioni, iniziare un dialogo. Avere la possibilità di tracciare dei segni di riconoscimento.
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