Donne in pensione a 65 anni: a quali condizioni?

Tra le misure in cantiere per sanare il bilancio dell’Italia si discute anche l’allungamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne. Un disegno che rimanda all’idea di una parità ormai compiuta, ma che deve fare i conti con ostacoli duri a morire e troppo spesso trascurati. Lo spiega bene un appello sottoscritto da 80 associazioni di donne che chiede al governo di mantenere gli impegni presi senza trasformare questo cambiamento in una nuova emarginazione sociale.

Donne in pensione a 65 anni: a quali condizioni?
Il 10 giugno 2010 il Governo ha approvato un emendamento al decreto legge 78/2010, con cui si stabiliva l’equiparazione dell'età pensionabile delle donne del pubblico impiego a quella degli uomini, portandola da 60 a 61 anni nel 2011 e a 65 anni nel 2012. Ora, nel contesto di una nuova manovra di aggiustamento dei conti pubblici diretta a raggiungere il pareggio di bilancio del 2014, il ministero dell’Economia sta valutando se estendere la misura alle lavoratrici del settore privato. Una decisione in linea con quanto richiesto dall’Europa, ma che in Italia si scontra con una serie di ostacoli, trascurati già nel caso della prima riforma e che ora rischiano di essere ugualmente sottovalutati. Un primo problema riguarda la discontinuità del lavoro femminile, che sconta i periodi di sospensione del lavoro per rispondere a responsabilità familiari (e le difficoltà di reinserimento dopo i congedi) con un’intermittenza retributiva quanto contributiva che si traduce generalmente in pensioni più basse. Il secondo aspetto è relativo alla carenza di politiche a supporto della conciliazione tra vita privata e lavorativa, tenendo conto di un maggiore impegno femminile nel lavoro domestico e di un ricorso ancora debole ai congedi parentali da parte degli uomini. In realtà, questo secondo punto era stato preso in esame dal Governo che, approvando l’allungamento dell’età pensionabile nella pubblica amministrazione, aveva previsto di far confluire i risparmi in un Fondo strategico con il quale finanziare servizi e politiche di sostegno alla conciliazione e alla non autosufficienza. Eppure questo programma è stato nei mesi successivi disatteso per emergenze eterogenee, che hanno finito per assorbire i primi fondi risparmiati, 120 milioni relativi al 2010 e 242 milioni relativi al 2011, per finalità del tutto diverse alla destinazione prevista dalla legge. Una vicenda passata sotto silenzio nel dibattito politico, ma che non è rimasta inosservata agli occhi delle associazioni impegnate a difendere la parità di diritti e di opportunità tra uomini e donne e a problematizzare un’uguaglianza troppo spesso più presunta che verificata. In 23 hanno lanciato un appello per chiedere al governo di mantenere l’impegno preso, di rendere disponibili strumenti perché quella decisione apparentemente così lineare in un orizzonte di progressivo avvicinamento delle condizioni di vita e lavoro di donne e uomini non si traducesse alla fine in una messa ai margini delle donne. L’appello ha portato frutti. È stato accolto alla fine da 80 associazioni e si è trasformato in proposte concrete: tre emendamenti al decreto sviluppo, di cui due esclusi dal presidente della Commissione Bilancio e uno, riammesso grazie ad un ricorso avanzato dai deputati Beltrandi e Lanzillotta, che prevede la concessione di crediti di imposta alle aziende che assumono donne, a valere su una dote di 300 milioni di euro, cioè una parte dei risparmi connessi all’allungamento dell’età pensionabile nella PA che nel triennio 2012-2014 ammontano a 1.136 milioni di euro. Cruciale è l’inclusione della proposta all’interno del maxi emendamento che sintetizza tutte le proposte di modifica al decreto sviluppo; in caso contrario, poiché il testo sarà blindato per la fiducia, la battaglia per far valere quell’impegno dovrà ricominciare in relazione alla prossima finanziaria. Intanto però mercoledì è atteso il Consiglio dei Ministri in cui il ministro dell’Economia Tremonti potrebbe presentare, nel quadro di un più ampio intervento sul sistema pensionistico, l’aumento a 65 anni per le lavoratrici del privato. Al di là dei tentativi di resistenza alla misura specifica che potrebbero venire dalla Lega, dal momento che le regioni settentrionali vedono una maggiore partecipazione femminile al lavoro nelle fabbriche, e dai sindacati, rimane l’importanza di ripensare la cura come questione che interroga donne e uomini e il modello di società cui tendiamo e non come problema femminile, secondario, da mettere come polvere sotto il tappeto. Una cosa che a tante, tante donne, non va proprio giù.

Commenti

Donne in pensione a 65 anni , negata anche la possibilità di godersi i primi anni dei nipoti, come è accaduto per i figli. In più andando avanti con l'età aumentano anche le probabilità di rischio infortuni sul lavoro.Le differenze di genere esistono,è un dato di fatto, uomini e donne sono diversi e le politiche per la salute e la sicurezza sul lavoro devono tenerne conto. Le differenze sono fisiologiche, psicologiche ed emotive oltre che differenti sono le condizioni di vita visto che, generalmente, sulla donna ricade il peso della gestione del tempo e dei ritmi della famiglia. E' stato tenuto conto di ciò, è previsto dalle assicurazioni e da INAIL l'aumento di probabilità di rischio nel mondo del lavoro? I limiti di esposizione ai rischi sono tarati su risposte fisiologiche maschili e non vengono considerati altri fattori di disagio: responsabilità familiari, mobbing, violenza, disparità salariale. Ringraziamo per questa iniqua parità
Clelia, 09-03-2013 12:09

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