di
Andrea Degl'Innocenti
01-02-2012
Negli ultimi cinquant'anni sono stati cementificati 600mila ettari di territorio. Altrettanti faranno la stessa fine nei prossimi venti, se non si interverrà in senso contrario. Abusivismo e attività di cava fra le cause principali. L'allarme è lanciato stavolta dal dossier di Fai e Wwf 'Terra rubata', che propone anche una serie di soluzioni, a partire da una moratoria su scala comunale sulle nuove edificazioni.
È il mal di cemento la malattia peggiore che affligge il nostro paese. 75 ettari al giorno vengono fagocitati da lingue di asfalto, sommersi da colate di cemento. 600mila ettari di suolo sono scomparsi così negli ultimi cinquant'anni, altrettanti rischiano di fare la stessa fine nei prossimi venti.
I dati, allarmanti, vengono dal dossier di Fai e Wwf “Terra rubata – Viaggio nell’Italia che scompare”. La ricerca è stata condotta su 11 regioni italiane, corrispondenti al 44% della superficie totale. È così emerso che in queste zone l'area urbana è aumentata del 350 per cento nell'ultimo mezzo secolo, con una crescita media di oltre 33 ettari al giorno e quasi 370 metri quadri a persona.
In Sardegna l’incremento di terreno urbanizzato è cresciuto addirittura del 1.154 per cento rispetto agli anni Cinquanta. Persino i comuni che nel corso degli anni sono stati oggetto di emigrazione e si sono svuotati, sono cresciuti. Si calcola che per ogni abitante perso essi abbiano guadagnato in media 800 metri quadri.
Attualmente il consumo del territorio ha raggiunto la media record dei 75 ettari al giorno, e le stime dicono che se non si interverrà in senso contrario la tendenza resterà la stessa per i prossimi vent'anni. Altri 600mila ettari finiranno bruciati sotto la macina della cementificazione selvaggia. Un rischio che proprio non possiamo permetterci di correre. “Il territorio è sottoposto a una minaccia spaventosa di cui pochi si rendono conto”, ha affermato il presidente onorario del Wwf Fulco Pratesi.
Una minaccia che va affrontata al più presto. Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai, ha sottolineato l'importanza di “affrontare il domani e non solo l’emergenza, perché poi si paga se nell’emergenza si è agito nella maniera sbagliata”. “Mi auguro – ha proseguito - che il governo Monti, che pure ha dovuto affrontare emergenze che risalgono all’epoca dei nostri padri fondatori, consideri anche il domani che seguirà alle sue scelte”.
Ma quali sono le cause di questa vera e propria esplosione del cemento? Il dossier di Wwf e Fai ne individua due principali: l'abusivismo e l'attività di cava.
Dal 1948 ad oggi sono stati compiuti 4,5 milioni di abusi: 75mila l’anno, 207 al giorno. Molti di questi di grandi dimensioni, opera delle lobby del cemento. Una pratica, quella dell'abusivismo, favorita e quasi incentivata dai condoni, 3 negli ultimi 16 anni.
Poi ci sono le cave. Nel solo 2006 hanno mutilato il territorio scavando 375 milioni di tonnellate di inerti e 320 milioni di tonnellate di argilla, calcare, gessi e pietre ornamentali. Ne risulta un territorio fragile, in equilibrio precario, soggetto a frane, smottamenti, alluvioni, esondazioni, a forte rischio desertificazione, come mai prima d'ora.
Il dossier non si limita a far emergere le problematiche ma ipotizza anche delle possibili soluzioni. Partendo dal presupposto che il settore del cemento, pur dannoso per il territorio, dà di che vivere a 8-10 milioni di persone, circa il 14-17 per cento della popolazione, Wwf e Fai tracciano una Road map per fermare il consumo del suolo, che parte dal porre “severi limiti all’urbanizzazione nella nuova generazione di piani paesistici” e, in attesa della loro definitiva redazione, avanza “la richiesta di una moratoria delle nuove edificazioni su scala comunale”.
Si dovrebbe inoltre “procedere ai Cambi di Destinazione d’Uso solo se coerenti con le scelte in materia di ambiente, paesaggio, trasporti e viabilità. E ancora: rafforzare la tutela delle nostre coste estendendo da 300 a 1000 metri dalla linea di battigia il margine di salvaguardia; difendere i fiumi non solo attraverso il rispetto delle fasce fluviali ma con interventi di abbattimento e delocalizzazione degli immobili situati nelle aree a rischio idrogeologico; farsi carico degli interventi di bonifica dei siti inquinati, escludendo che i costi di bonifica vengano compensati attraverso il riuso delle aree a fini edificatori.”