Fuggire spesso significa non voler fare i conti, e non coincide con una libertà autentica. Di seguito una rilettura del classico tormento del Dr Jekyll, raccontato dal limpido talento di Robert Louis Stevenson. Perché si può fuggire da tutto, ma non da se stessi.
Qualcuno dice che chi fugge non è libero, perché ancora mentre fugge e perché fugge e per tutto il tempo che segue la fuga, è determinato dalla cosa da cui è fuggito, e vive dunque sempre alla sua presenza e in relazione ad essa. È questo il tormento del miserabile Dr Jekyll, raccontato dal limpido talento di Robert Louis Stevenson.
Il Dr Jekyll immagina di poter fuggire la parte più abietta e depravata di sé, che riconosce però come la più vitale; vuole dissezionarla, togliersela di dosso, trapiantarla in un altro corpo che corrisponda a quel vigore demoniaco, a quello scatto della furbizia, alla spietatezza che corre agile e non si volta.
Mr Hyde non prova pentimento, conosce solo la gioia del proprio crimine. Eppure egli non è che l’inevitabile risvolto di Jekyll: uomo colto e ambizioso, teso alla perfezione del proprio compito di scienziato, capace di alleviare sofferenze e lavorare per il progresso, riconosciuto e onorato dalla società in cui pascola sereno perché conforme, sostenuto dalla compagnia degli amici e da una robusta ricchezza.
In questa condizione illuminata, infatti, Jekyll percepisce un’orrenda indifferenza, di cui diventa giudice impietoso: cova un sottile livore per la pigrizia e la crudeltà degli uomini, una noia del bene impartito dall’omelia domenicale, e una forte presunzione di poter varcare i limiti di una natura opprimente verso un’altra più liberatoria e veritiera. Non combatte pubblicamente per il diritto all’esistenza delle ombre, e le costringe, e si costringe, al buio e alla clandestinità. Non accogliendo in sé stesso quelli che considera gli aspetti più infimi e deplorevoli della propria umanità, li fugge e li deposita in un altro sé, destinato alla notte. Del mostro a cui li ha consegnati, invece, riesce ad avere pietà, a comprendere l’entusiasmo senza regola, l’energia senza controllo, l’amore molesto.
Dice Stevenson che Jekyll ha per Hyde l’interesse di un padre, combattuto tra fierezza e distacco. Ma questo padre non sa educare il figlio disgraziato che ha concepito come latrina del male, non lo guida nel mondo, non ne modella la voce e l’aspetto - nemmeno gli abiti che indossa Hyde sono della taglia giusta, gli vanno larghi.
Quello che fa è abbandonarlo a un istinto selvaggio, al disgusto degli uomini, al terrore assoluto. In questa posizione di apparente controllo, Jekyll condanna la propria identità a una scissione che diventa bestiale, il proprio bisogno di libertà a una forma di isolamento.
E Mr Hyde, anche da solo, anche negletto, continua a crescere, a farsi spazio nel corpo di chi lo ha generato.
Ciò da cui Jekyll era fuggito ritorna e lo invade, e arriva il mattino in cui si sveglia con le mani dell’assassino invece delle sue. Persino allora, quando si risolve al suicidio, consegnando al futuro i dettagli di una storia tanto comune quanto infelice, confessa: ‘This is my true hour of death, and what is to follow concerns another than myself’.
Senza essersi potuto riconciliare con l’altro dentro di sé. Scegliendo ancora una volta la fuga, l’ultima possibile, fino a prova contraria.