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L'ultimo libro di Michele Dotti, 'Dudal Jam, A scuola di pace. Percorsi di dialogo interculturale dal Burkina Faso' (EMI 2010), scritto con Patrizia Canova e numerose altre voci del volontariato italiano e burkinabè racconta la storia di una scuola per la pace oggi attiva nel cuore del Burkina Faso e diffonde l'invito allo scambio culturale ed alla dissoluzione degli stereotipi che precludono nuovi saperi.
I libri, diceva Tiziano Terzani, danno moltissimo senza chiedere nulla. Alcuni libri, però, sono di una specie particolare: sono libri-incontro, che mediano la conoscenza di un'altra cultura, e a volte, fra le righe, qualcosa chiedono, ovvero di abbandonare degli stereotipi ingombranti e di andare incontro alle realtà che raccontano.
Dudal Jam, A scuola di Pace. Percorsi di dialogo interculturale dal Burkina Faso (EMI 2010), scritto e curato da Patrizia Canova e Michele Dotti, è uno di questi libri. Un volume corale cui hanno collaborato educatori, missionari ed attivisti italiani e burkinabè, ma soprattutto un libro nato per dare visibilità ad un esempio di convivenza pacifica attualmente esistente fra una moltitudine di popoli appartenenti a credo differenti.
L'esempio è quello del Burkina Faso, ovvero “il paese degli uomini integri” (così battezzato nel 1984 dal presidente Thomas Sankara), un Paese dell'Africa occidentale sub-sahariana di poco più piccolo, per estensione, dell'Italia; il più ricco di gruppi etnici dell'intera Africa occidentale, ma anche noto ai conoscitori di statistiche e sondaggi come uno dei più poveri del mondo. In realtà il Burkina Faso è un luogo che, a volerlo racchiudere in una singola descrizione, ti sfugge sempre di mano dal lato opposto, e meglio sarebbe, piuttosto che procurargli etichette, raccontare le differenze che lo abitano.
Michele Dotti - che del Burkina è anche divenuto cittadino ed è legato ad esso da anni di viaggi, progetti e scambi culturali - ricorda che circa il 20% della popolazione è di fede cristiana e il 50% di fede islamica, ma, stando ad un proverbio molto diffuso, “il restante 100%” è legato alla spiritualità tradizionale (impropriamente detta animista). Significa che gli elementi della spiritualità, che sono in parte inscindibili dalla cultura burkinabè, si ritrovano nelle pratiche di culto cristiane e musulmane.
Proprio questa pacifica convivenza fra i diversi culti ha dato vita al progetto Dudal Jam, che ambisce ad essere la 'scuola della pace' (nella lingua dei nomadi Peul è questo il significato di Dudal Jam) di Dori, capoluogo del Sahel, la regione più povera del Burkina. Concretamente il progetto mira a lottare contro i pregiudizi culturali e i fondamentalismi religiosi per favorire, invece, incontri di scambio culturale per i giovani e i membri di differenti confessioni religiose. In Burkina Faso questo è possibile perché il Paese vanta una forte, benché poco nota ai media, capacità di integrazione religiosa.
La campagna Dudal Jam è stata lanciata nel 2008, in occasione del Convegno Cem Mondialità, che ha visto la partecipazione di un gruppo di giovani burkinabè in un laboratorio specifico, che favorisse l'incontro e lo scambio di esperienze, tecniche, racconti tra educatori italiani e burkinabè. Dall'agosto 2008 le azioni della campagna si sono andate moltiplicando, concentrandosi sugli sforzi di sensibilizzazione (sia in Europa che in Burkina Faso), sulla formazione e sulle esperienze di scambio.
Già prima, però, nel 2006, il progetto Dudal Jam è stato concepito come un centro per l'educazione alla pace ed al dialogo interculturale per iniziativa dell'Union fraternelle des croyantes (Ufc), l'organizzazione di volontari fondata nel 1969 da Padre Lucien Bidaud a Dori.
Nel 2006 il vescovo di Dori e il presidente di tutte le comunità musulmane del Burkina inviarono ad una piccola rete di comuni piemontesi un messaggio contenente la proposta di dar vita ad una scuola della pace, una vera Dudal Jam. L'invito, raccolto dall'associazione Endam e dalle ong Lvia e Cem, ha dato il via alla trama dei successivi convegni, incontri e stage che hanno lasciato tracce profonde in chi vi ha partecipato. Il loro motto potrebbe essere: “È meglio insegnare a una persona a pescare che darle del pesce ogni volta che ha fame”.
Infatti le iniziative avviate dall'Ufc promuovono, al tempo stesso, la cooperazione per la protezione ambientale, la formazione professionale, il reinserimento dei disabili e l'emancipazione femminile. Per questo l'Unione è oggi attiva in numerosi progetti e azioni che coinvolgono tutto il Burkina Faso, puntando sul dialogo interreligioso, la cooperazione e la comune volontà di sviluppo della comunità.
La stessa origine dell'Ufc è una storia di mutuo rispetto e di collaborazione. Negli anni Sessanta Lucien Bidaud era in missione in Africa, quando la regione del Sahel, già gravata da condizioni climatiche e territoriali sfavorevoli, fu gravemente colpita dalla siccità. Bidaud si adoperò per ottenere i viveri da distribuire gratuitamente alle popolazioni, coinvolgendo nella sua attività le autorità musulmane e cattoliche della regione. L'Unione, fondata di lì a poco, rappresenta l'esito di questo sforzo condiviso, ovvero la sintesi di forze e culture dei volontari provenienti da entrambe le comunità.
Alla base di queste iniziative non si nascondono intenzioni velleitarie, né facili buonismi. L'entusiasmo che anima il progetto deriva, piuttosto, dalla scoperta della facilità con cui gli stereotipi, che troppo spesso dipingono il continente africano solo come una terra malata e disgraziata, possono essere sfatati a vantaggio di una nuova comprensione di una una realtà rimasta ingiustamente ingabbiata culturalmente, prima che economicamente e socialmente. Proprio queste sono le conoscenze che diventano veicolo di energie, cambiamento e risanamento.
Si muove in questa direzione anche la collaborazione tra Cem e gli ideatori di Sambiiga, l'altro fratello, il primo reality show responsabile, diretto da Michele Dotti e realizzato da Daniel Tarozzi (sul sito di Sambiiga e sul blog di Michele Dotti è, inoltre, possibile vedere numerosi video e gallerie fotografiche del CD-rom che accompagna il volume Dudal Jam).
Le telecamere hanno accompagnato un gruppo di viaggiatori italiani in Burkina Faso così da costruire un progetto di comunicazione integrata tra radio, video, Internet che spiace non poter vedere sugli schermi al posto di altre note trasmissioni.
Ma, come sempre, le comprensioni autentiche, quelle che promuovono il cambiamento effettivo, passano attraverso una riflessione critica, che sia però attenta a non calpestare le sfumature, non sempre oggetto di appropriazione e di giudizio. Perciò, per imparare a dirigere lo sguardo, può essere utile ricordare un passo di J. S. Mbiti (1992), citato da Michele Dotti nel volume:
Nella società occidentale o tecnologica, il tempo è un bene che deve essere utilizzato, venduto e comprato, ma nella vita tradizionale africana il tempo deve essere creato o prodotto. L'uomo non è schiavo del tempo, invece egli 'fa' tutto il tempo che desidera.
Quando gli stranieri, soprattutto europei e americani, giungono in Africa e vedono persone sedute da qualche parte, che apparentemente non fanno nulla, spesso commentano: "Questi africani perdono tempo, lì seduti senza far nulla!". Un'altra lagnanza è: "Gli africani sono sempre in ritardo!". È facile saltare a queste conclusioni, ma esse si basano sull'ignoranza del significato che il tempo riveste per gli africani.
Le persone sedute per terra, in realtà, non perdono tempo, ma lo stanno aspettando o sono nella fase di 'produzione' del tempo.
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