Sembra giunto al termine il processo quasi decennale che vede contrapposti il colosso petrolifero statunitense Chevron, costretto a versare oltre 18 miliardi di dollari per i danni ambientali provocati nell’Amazzonia ecuadoriana, e le popolazioni locali.
Continua la battaglia legale tra la compagnia statunitense Chevron e lo Stato dell’Ecuador. Nonostante lo scorso marzo il colosso petrolifero nordamericano avesse cercato di evitare il pagamento di una multa già di per sé iperbolica per danni irreversibili all’ambiente e alla popolazione locale, appellandosi ad un Trattato bilaterale tra gli Usa e l’Ecuador (firmato nei primi anni ’90) che sanciva la sua libertà da ogni obbligo nel caso avesse riempito almeno un terzo delle 'piscine' costruite per contenere gli scarti dell’estrazione petrolifera, ora di cavilli burocratici a cui aggrapparsi sembrano finalmente non essercene più.
I giudici della corte d’appello della provincia di Sucumbios hanno infatti confermato in appello la sentenza emessa lo scorso febbraio dal tribunale di primo grado: Chevron deve pagare per i danni ambientali causati dalle attività estrattive della compagnia petrolifera con cui si è fusa nel 2001, la Texaco, da lunghissimo tempo in conflitto con gli oltre trentamila abitanti di quella regione. Molto soddisfatto il presidente ecuadoriano Rafael Correa, secondo cui “Giustizia è stata fatta, in una battaglia legale che sembra Davide contro Golia”.
Il risarcimento era in origine di 8,6 miliardi di dollari, a patto che il gigante statunitense si fosse scusato pubblicamente (almeno) con le popolazioni locali colpite. Ovviamente era chiedere troppo, e la Chevron ha pensato bene di ignorare la richiesta. Fa però enormemente piacere, adesso, vedere che una tale arroganza sia stata punita con un inasprimento della pena: per la sua tracotanza, infatti, Chevron dovrà ora pagare più del doppio dei soldi richiesti alcuni mesi fa, ossia 18,2 miliardi di dollari. E oltre al danno, la beffa: “Confermiamo la sentenza di primo grado in ogni suo aspetto – hanno scritto i giudici – compresa la richiesta di scuse pubbliche”.
Ci si è insomma avvicinati ai 27 miliardi richiesti dagli indigeni e dal loro avvocato, Pablo Fajardo, che da vent’anni si occupa del caso. “Una somma insignificante rispetto al reale crimine commesso”, aveva lamentato l’avvocato in seguito alla condanna a pagare gli 8,6 miliardi di dollari, ma “comunque un passo in avanti verso il trionfo della giustizia”. Un “crimine ambientale, culturale e umano” che ci si trascinerà ancora per molto tempo. E che già da molti anni perseguita la regione.
La vicenda risale infatti ai primi anni ’70, quando la Texaco iniziò ad operare nell’Amazzonia ecuadoriana. Dal 1972 al 1992, in particolare, secondo l’accusa la compagnia petrolifera avrebbe sversato nell’ambiente locale circa 68 miliardi di litri di sostanze tossiche derivanti dal petrolio e dalla sua estrazione, appestando irreparabilmente corsi d’acqua, campi e foresta.
Ma come è successo già molte volte in passato, ora c’è da aspettarsi che Chevron provi di tutto pur di non pagare. In un comunicato stampa diffuso in seguito alla sentenza, infatti, la multinazionale statunitense ha pesantemente contestato le disposizioni dei giudici ecuadoriani: “La decisione di oggi è un altro esempio eclatante della corruzione e della politicizzazione del sistema giudiziario dell’Ecuador che ha afflitto questo caso fraudolento fin dall’inizio”, ha scritto, accusando i denuncianti di essersi basati su prove false, fabbricate di proposito.
Prove talmente false che chiunque, da tempo, può partecipare ai cosiddetti Toxic tour organizzati dalle associazioni ambientaliste locali, durante i quali ci si può rilassare ammirando un paesaggio per sempre compromesso, fatto di pozze di petrolio a cielo aperto, tratti di foresta bruciati dalle piogge acide e fiumi interamente privi di pesci. E fa sorridere vedere come proprio gli statunitensi si lamentino della corruzione, quando proprio negli Usa, secondo Chevron, “non meno di otto giudici federali hanno riconosciuto che il processo in Ecuador è stato alterato dal comportamento scorretto dei rappresentanti dei querelanti”.
La difesa del colosso petrolifero incolpa inoltre un’altra compagnia, la statale Petroecuador, delle 260 pozze sparse nella zona di Sucumbíos, causa principale del disastro ambientale e sanitario. Un punto in realtà a sfavore degli ecuadoriani, dato che la compagnia di casa ha le sue belle responsabilità. Presunte colpe legate al fatto che, nel 1996, Petroecuador firmò un contratto di partecipazione con il governo e la Compagnia Generale di Combustibili argentina per lo sfruttamento petrolifero di duecentomila ettari di terra, nei territori delle Nazioni Ancestrali dell’Amazzonia Ecuadoriana. Concessione data senza consultare i popoli indigeni, e violando l’Accordo di Sarayaku, con il quale lo Stato proteggeva quel territorio proprio dallo sfruttamento petrolifero.
Di conseguenza, a quasi nove anni dall’inizio del processo e a ben 48 dall’arrivo di Texaco nella zona di Sucumbíos, gli abitanti di Lago Agrio possono sì festeggiare quella che è comunque la prima vittoria ottenuta da una comunità indigena nei confronti di una multinazionale del petrolio.
Ma i dollari di Chevron destinati a risarcire questa provincia amazzonica al confine con la Colombia ci metteranno parecchio tempo ad arrivare. “L’azienda continuerà a cercare di portare a giudizio i responsabili di questa frode”, ribadisce infatti la corporation, convinta del fatto che la sentenza non sia “applicabile da qualsiasi tribunale che rispetti la legge e lo stato di diritto”. Tante chiacchiere che lasciano intendere un cosa sola: se la compagnia californiana non è neppure disposta a scusarsi, figuriamoci se lo sarà a pagare.
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