di
Andrea Degl'Innocenti
03-05-2013
L'Ecuador vuole cedere 3 milioni di ettari di foresta pluviale - circa un decimo del territorio nazionale - alle compagnie petrolifere. Le più interessate sembrano quelle cinesi, e in molti ricollegano l'affare al debito contratto dal governo di Quito con Pechino. Ma nell'area in questione abitano sette diverse popolazioni indigene che potrebbero vedere distrutto il loro ambiente.
Brutta mano per Rafael Correa. Il presidente-eroe che nel 2008 annullò il debito estero illegittimo dell’Ecuador verso le banche statunitensi sembra aver scordato di colpo i rischi che si corrono nel finanziarsi con i prestiti delle nazioni straniere. Così ora si trova a dover svendere una enorme fetta della propria nazione alla Cina, mettendo a rischio la sopravvivenza di varie popolazioni indigene. Almeno questo è ciò che sta avvenendo secondo una delle ipotesi più accreditate.
Di certo c’è che il governo di Quito ha messo all’asta 3 milioni di ettari di foresta amazzonica per favorire gli investimenti delle compagnie petrolifere straniere e che tra i clienti più interessati ci sono la China Petrochemical e la China National Offshore Oil.
Il 25 marzo un gruppo di politici ecuadoriani ha incontrato alcuni rappresentanti delle compagnie cinesi in un hotel Hilton nel centro di Pechino, per offrire contratti di usufrutto dell’area. In precedenza si erano tenuti altri incontri a Quito, Houston e Parigi.
Tre milioni di ettari sono oltre un decimo del territorio dell’intero paese. In essi vivono sette diverse popolazioni indigene che potrebbero vedere la propria terra venduta al miglior offerente, per essere in seguito spianata, trivellata, inquinata, devastata dall’estrazione del petrolio.
Per loro il “buen vivir” è a rischio. Il diritto a vivere in un ambiente sano, gli sforzi per utilizzare energie pulite, il diritto alla salute, all’acqua, alla natura sono concetti ampiamente riconosciuti dalla costituzione ecuadoriana approvata nel 2008 – su forte pressione dello stesso Correa - compresi sotto al concetto-cappello del “ben vivere” (“buen vivir”, o “sumak kawsay” in Quechua) ma rischiano di passare in secondo piano di fronte agli interessi economici nazionali.
Il buon vivere, vero e proprio pilastro della costituzione – concetto della tradizione sudamericana che consiste nel promuove la vita ed il bilanciamento fra esseri umani ed altri esseri viventi, al fine di una coesistenza armoniosa con la natura – non esisterà più.
Le proteste non si sono fatte attendere. "Chiediamo che le compagnie petrolifere pubbliche e private di tutto il mondo non partecipino al processo di gara che viola sistematicamente i diritti dei sette popolazioni indigene, imponendo progetti petroliferi nei loro territori ancestrali," hanno scritto in una lettera aperta alcuni rappresentanti delle popolazioni indigene ecuadoriane.
Dal canto suo, il governo ecuadoriano ha risposto accusando a sua volta. In un'intervista, il segretario agli idrocarburi, Andrés Donoso Fabara, ha accusato i leader indigeni di rappresentare scorrettamente le proprie comunità per raggiungere obiettivi politici. "Questi ragazzi hanno un programma politico, non stanno pensando allo sviluppo o alla lotta contro la povertà", ha detto, aggiungendo che il governo aveva deciso di non aprire determinate aree del territorio perché mancava il sostegno delle comunità locali. "Siamo autorizzati dalla legge, se volessimo, ad entrare con la forza e fare le nostre attività, anche se sono contro di loro", ha detto. "Ma non è la nostra politica."
Nel parlare di “programma politico” Fabara allude forse all’appoggio che le popolazioni indigene hanno ottenuto da alcune associazioni umanitarie con base in Usa. In effetti è possibile che gli Stati Uniti cerchino di utilizzare il classico stratagemma della lotta per i diritti umani al fine di ostacolare una serie di accordi fra Ecuador e Cina che potrebbero contribuire a cambiare gli equilibri geopolitici del Sud America. Recentemente la Cina ha dimostrato più di un semplice interesse. Proprio ieri, 2 maggio, il nuovo ambasciatore cinese a Quito ha affermato che si aspetta che la collaborazione fra i due paesi verrà ampliata all’ambito culturale, militare, educativo e scientifico.
Geopolitica a parte, resta gravissima l’iniziativa del governo ecuadoriano. Fra gli accusatori dell’esecutivo c’è poi chi è sicuro che l’intera operazione sia legata al debito contratto dall’Ecuador con la Cina. Un debito che ammonta a 7,2 miliardi di dollari, circa il 13 per cento del pil del paese. Adam Zuckerman, attivista ambientale e per i diritti umani di Amazon watch ha dichiarato al Guardian: "La mia percezione è che questo sia essenzialmente un problema di debito; gli ecuadoriani sono così dipendenti dai cinese per finanziare il loro sviluppo che sono disposti a compromessi in altri settori, come quelli sociale e ambientale".
Così, barattata in cambio di qualche miliardo di dollari, un’altra ampia zona del polmone verde del mondo rischia di essere compromessa per sempre, sottraendo ricchezza all'ecosistema e alla biodiversità del pianeta.
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